Tra il 4 e il 5 giugno le sale cinematografiche italiane hanno avuto modo di accogliere il ritorno di un caposaldo della storia della settima arte, 2001: Odissea nello spazio. L’opera di Stanley Kubrick è stata infatti riproposta e celebrata all’ultima edizione del Festival di Cannes in occasione del cinquantesimo anniversario della sua uscita negli States datata 2 aprile 1968. Il restauro, preso in carico da Christopher Nolan, ha riportato la pellicola al suo splendore originale, quello garantito dai 70 mm sfruttati già al tempo dal celebre regista americano naturalizzato britannico.

Riproporre, a distanza di mezzo secolo e abituati come siamo ad effetti speciali pressoché onnipotenti, un film di fantascienza realizzato a metà anni Sessanta è senza dubbio un rischio. Il nostro palato ‘raffinato’ ormai mal sopporta la lentezza, l’artificio, l’obsolescenza visiva: avete mai provato a rivedere qualche episodio della serie classica di Star Trek? Eppure 2001 non sembra essere invecchiato di un giorno. E non solo per merito dei rudimentali ma ingegnosi effetti speciali che valsero a Kubrick il suo unico Oscar. Sarebbe scorretto infatti pensare che chi è tornato al cinema lo abbia fatto solo per rivedere un film di fantascienza. Si tratta di qualcosa di più.

Odissea nello spazio è prima di ogni altra cosa un’odissea. No, non perché sembra non finire più. È un’odissea nella misura in cui si tratta di un faticoso viaggio, un viaggio dialettico, spiraliforme più che circolare, il viaggio di un’umanità per cui “Itaca” si traduce in innocenza: quella originale, ferina, del primo inizio; quella di approdo, ulteriore, del nuovo inizio. Il monolito nero non è un dispositivo alieno, è solo una cosmica pietra miliare. È lì quando l’uomo primitivo scopre la violenza, il sopruso, la colpa; è lì ad aspettarlo sulla Luna quando avrà ormai capito che l’innocenza non è più di questo mondo; è lì quando occorre superare anche la Luna per non veder più l’immagine della Terra, spingendosi fino a Giove, dove è possibile giungere solo rinnegando, spegnendo, anche l’ultima riproduzione del Sé, quella tecnologica: cos’è del resto HAL se non il “più umano”, il “troppo umano”? Solo così, dopo tanto peregrinare, a destra e manca ma sempre in avanti, non resta che il viaggio di ritorno, quello solitario, silenzioso e sospeso nel tempo, in cui il protagonista David Bowman (“uomo con l’arco” come Ulisse, ma anche “arco dell’uomo”, parabola esistenziale) si fa carico di una morte per divenire finalmente Feto Stellare. Nietzsche in tutta la sua potenza sonora: più che una lontana eco, c’è un’intera orchestra a suonare Strauss, Also sprach Zarathustra.

Ma non bisogna fermarsi qui. Commentando la sua opera, Kubrick affermò: “Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio”. È presumibile che il numero di pagine scritte fino ad oggi su 2001 sia collocabile nell’ordine dei milioni: non si può fare a meno di tentarne una interpretazione. Perché? Perché l’uomo è di questo mondo. È una scimmia depilata che impugna I.A. al posto delle ossa di un tapiro. Vincolato com’è al bisogno di coscienza e di senso, corrispondenti ai freudiani Io e Super-io, solo un’esperienza plurisensoriale ed emotiva “che aggiri la comprensione” come 2001: Odissea nello spazio è in grado di trascinarlo lontano da questo mondo, nel regno sempre nuovo, sempre ulteriore, dell’Es, lì dove un Feto Stellare aspetta di vedere la luce.


 

Lorenzo Di Maria, molisano, è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

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