Baby è la nuova serie italiana targata Netflix ed è uguale a tutte le “nuove serie italiane”. Pezzi synthwave, feste, violenza e lusso, mentre un’umanità insieme grandiosa e umiliata si dimena convulsa sullo schermo.  Contraddizioni accumulate, l’una accanto all’altra. Come diceva Zerocalcare parlando de “Il miracolo”, nel cinema italiano le donne devono fare quel tono da “pesce fracico, per sembrare più evanescenti” mentre “i maschi pare che hanno appena pippato e stanno a tanto così dalla tragedia che va in Cronaca di Roma”.

Oltre la battuta, Baby ruota proprio attorno a questo cardine: l’avvitarsi frenetico di una spinta incontrollata alla vita e di uno struggente consumarsi verso la morte. Ludovica, Chiara, Camilla, Fabio e Damiano sono tanto evanescenti quanto “perennemente in botta” (è ancora Zerocalcare). I personaggi non accedono mai alla dimensione progettuale (e dunque pienamente temporale) della razionalità, ma si muovono in un eterno presente (notare l’ossimoro) scossi inesorabilmente da queste due forze, contrarie e insieme accordate nello stesso spartito.

Forse più di altre serie e di altri film, Baby è la dimostrazione di questo motto: “assaltare il mondo per potervisi consumare secondo il proprio movimento interno”. Voler imporre al mondo la “propria” dissipazione è un altro modo per dire “voler compiere il proprio destino”. Proprio nel senso in cui gli eroi omerici compivano il proprio destino. Vita, morte, destino: più che nella Roma degli anni ’10, Baby ci riporta nella Vienna degli anni ’20. E di lì verso qualcosa di molto più antico e spaventoso.

Perdita

Nel 1921 Freud sta scrivendo “Al di là del principio di piacere”. La domanda è: “cosa governa la vita pulsionale dell’uomo? Si può affermare senza dubbio l’egemonia del “principio di piacere”?”. Per andare al di là di questa egemonia, Freud è costretto a ridefinire la pulsione come “una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare lo stato precedente al quale quell’essere vivente ha dovuto rinunciare”. Ma lo stato precedente alla vita è l’inorganico, la quiete della negazione della vita. Allora “la meta di tutto ciò che è vivo è la morte”, l’originario dello psichico è “uno sforzo per autoannullarsi”, per disgregarsi nella semplicità del “minerale”.

Ma allora l’Eros? La pulsione sessuale volta al rendere immortale il singolo nella specie e che “tiene unite tutte le cose viventi”? Si tratta di una pulsione parziale, “messa al servizio della pulsione di morte”, avente la funzione di “garantire che l’organismo possa dirigersi verso la morte per la propria via”. L’organismo “vuole morire alla propria maniera”. Ma che cosa è questa “propria maniera?” È il differire della morte, il raggiungerla secondo il senso della “propria perdita”.

È questa la difficoltà del testo di Freud: al fondo del soggetto ci sono due perdite. La perdita della pace inorganica e la separazione da un’unione totale. O perché disgregato o perché unito, il soggetto sorge ed ha esperienza di sé solo in quanto originariamente perde qualcosa di totale. E tutta la sua storia è il riandare incontro a questo “qualcosa”.

Perdita è perdizione

Ogni personaggio di Baby è connotato da una perdita originaria ed il suo vivere è il racconto, il dispiegamento temporale, che si origina da questa separazione. Freud cita il mito platonico degli adrogini come esempio della perdita originaria (atemporale) che costituisce ogni uomo; i personaggi di Baby ne incarnano una variazione individuale (la madre, la famiglia, il padre, gli ideali…). I loro amori, le loro scelte, le loro ambizioni, non sono altro che la lotta per morire alla propria maniera, affermando il proprio destino come rievocazione della perdita originaria. La perdita diventa soggetto, realizzandosi come perdizione.

Così ogni personaggio è incastrato definitivamente in questa perdita, è costretto a riviverla continuamente. Possono vivere solo così. Come dice Damiano:

“No, è inutile che provo a sta bene, non è né colpa tua né de Camilla… è dentro de me. Io non voglio andà avanti, non ce voglio nemmeno provà… capisci che se non ci sto male io non rimarrà più nessuno a stare male per lei.”


Andrea Ferretti è laureato in filosofia con una tesi sul Senso Comune nel pensiero di G. B. Vico. È appassionato di calcio, folklori contemporanei e giochi di ruolo.

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