La notizia ha fatto ormai il giro del mondo: l’opera di Banksy, battuta all’asta di Sotheby’s per circa un milione di sterline, subito dopo essere stata aggiudicata si è autodistrutta. In quel preciso istante un evento figlio dell’elitarismo ovattato delle aste d’arte è diventato virale, facendo il giro del mondo e diventando a tutti gli effetti pop.

Perché è avvenuto ciò? Ci sono tre punti che vanno esplicitati: la distruzione di valore, la negazione capitalistica e la genialità della trovata.

Distruzione di valore – Questa forma di negazione si muove lungo due ordini paralleli. Il primo è relativo all’oggetto artistico. La tradizione culturale, soprattutto occidentale, riconosce al prodotto d’arte un valore intrinseco che lo sottrae alla semplice attribuzione oggettuale. In esso, infatti, c’è una sedimentazione contenutistica e significativa che lo rende qualcosa di più rispetto a qualunque utilizzo. Lo pone, aristotelicamente, nella condizione della theoria, cioè della fruizione (passiva) della contemplazione. Distruggere arte, quindi, è distruggere un valore primariamente culturale, creativo, di apertura verso una spazio semantico inesplorato. Qui, il primo sentimento di scandalo nei confronti del gesto annichilatore.

A questo si aggiunge il secondo piano più propriamente economico. L’opera era stata appena battuta per una cifra (un milione di sterline) di cui la maggior parte degli esseri umani sul pianeta non riesce a configurare neanche a livello immaginativo. Essa aveva quindi anche un valore reale. Non era solo arte. Era valore d’arte e valore reale (sulla complessa connessione che queste due dimensioni hanno nel peculiare mondo capitalistico del mercato dell’arte contemporanea si dovrà tornare ulteriormente). Ciò che colpisce l’immaginario è questo secondo aspetto. Un’ingente cifra di denaro distrutta in qualche manciata di secondi. Il valore reale, economico, concreto, monetizzabile non c’è più. Azzerato, cancellato. Come una sorta di giusta punizione.

Negazione capitalistica – Qui si inserisce la questione anti-capitalistica. La scelta dell’artista di cancellare la sua traccia artistica viene interpretata subito come gesto di ribellione del meccanismo commerciale che “piega” l’opera artistica alla semplice quantificazione monetaria del valore. Banksy sceglie, o almeno questo è il messaggio che ne emerge, di ingannare il sistema. Segue i dettami dell’asta, secondo le regole con cui viene scandita, fa valorizzare il suo prodotto, come se fosse vendibile. Accetta che qualcuno, uno ricco (la specificazione è decisiva), scelga di investire sull’opera. E, in quel momento in cui il valore artistico è fissato al valore economico, sceglie di distruggere (apparentemente) entrambi, punendo così il compratore per aver commesso il peccato (ancestrale) di riportare alla monetizzazione la significazione artistica. A essere punito, nella ricezione, è però non soltanto il singolo comprato, oberato di ricchezza, ma tutto il sistema del capitale che vive appunto dello schiacciamento a valore quantificabile di ogni valore umano-culturale. È questo il moto istintuale, primario, implicito che ha mosso l’adesione di tutti coloro che hanno appresso e condiviso la notizia.

Genialità – Banksy è famoso per la sua elusività (al punto che non se ne conosce ufficialmente l’identità), è noto per cercare di evidenziare di volta di volta i punti di rottura che caratterizzano il mondo dell’arte contemporanea, è percepito (e si percepisce) come un outsider capace di andare al di là delle regole prestabilite. Il gesto messo in atto all’asta di Sotheby’s è tutte queste dimensioni insieme con l’aggiunta dell’inganno economico (il milione pagato). Ciò basta per rendere Banksy geniale. È una genialità di sorpresa, una genialità che altera il corso degli eventi, una genialità che sembra portare le regole della strada (l’arte di strada di cui Banksy è maestro indiscusso) al cuore del sistema, mettendo in conto la possibilità – come avviene negli edifici lungo le vie – che l’opera esiste in un certo momento e in quello successivo possa non esserci più. La genialità della comprensione di un tempo come distruttore di ogni garanzia esistenziale, anche quella che viene pagata a caro prezzo.

A questo punto però andrebbero poste le domande essenziale relative alla grande trovat di Banksy:

– è veramente un atto di distruzione artistica ed economica? Probabilmente no. Il “distrutto” in quanto tale ha un suo valore significativo, quindi culturale, quindi nuovamente artistico. L’ambito economico, a sua volta, vive in una convezione di riconoscimento altamente rarefatta: una volta che qualcosa “esiste”, indipendentemente dal suo stato, è attribuibile di valore. Ecco allora che l’opera distrutta per il fatto stesso di essere tale e di essere un unicum si ritrova ad avere un suo preciso (e più alto) valore;

– è veramente un atto di negazione capitalistica? È bello crederlo. Lo si può credere. In realtà, per il compratore il danno di fatto non c’è stato. Chi ha quelle disponibilità economiche non ha problemi con un milione in più o in meno, senza ovviamente contare che le listelle, resto dell’opera, rischiano di valere di più ancora. All’opera, volenti o nolenti, alla fine è stato dato un prezzo, e si continuerà a farlo. E anche queste trovate creative, eversive, distruttive, per chi conosce questo mondo, sa bene come siano già in qualche modo codificate (e valorizzate) intorno al variegato mondo del ready made.

– è veramente un genio Banksy? È sicuramente uno dei personaggi più interessanti della scena contemporanea dell’arte. Un artista che riesce a “giocare” più e meglio di altri con regole, spesse volte, asfissianti. La sua genialità è dunque indubbia. Più che in un’ottica creativa, tuttavia, essa si esprime in una peculiare capacità di spettacolarizzazione.

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