Barbara d’Urso è un personaggio al centro dell’attenzione. Si tratta di una delle vere regine della televisione, e questo sia per la quantità di programmi dei quali è protagonista sia per l’impatto nell’immaginario collettivo che tali trasmissioni hanno. Senza voler arrivare una considerazione generale sulla figura della presentatrice che necessità di una riflessione più ampia e segmentata, l’aspetto che qui si vuole evidenziare è una particolare modalità di comprensione della nostalgia che differenza d’Urso in maniera radicale dal resto del panorama televisivo.

Lo spunto di queste osservazioni si origina su Instagram e sull’insistito racconto, a metà tra la scelta stilistica e l’autocelebrazione personale, della ripresa dei vestiti utilizzati circa quindici anni fa durante la conduzione delle prime edizioni del Grande Fratello. La più facile osservazione è quella che rimanda a qualche forma di sponsorizzazione d’abbigliamento. Un’altra, altrettanto legittima, è la volontà da parte della conduttrice di dimostrarsi ancora “giovane” rispetto alle concorrenti. Sono vere entrambe e se ne possono trovare altre più o meno economicistiche o di politica televisiva. Il tratto essenziale rimane tuttavia il carattere anti-nostalgico di un’operazione (apparentemente) nostalgica.

Una resistenza al tempo

D’Urso manifesta un comportamento classico: rimanda a un tempo passato felice, di successo, nel quale era più giovane, più bella, più attraente. E lo fa utilizzando a simbolo di quegli anni i vestiti. La moda come iconografia, come testo di narrazione. Gli abiti di allora ritornano a essere gli abiti di oggi. Il buco temporale è saldato. L’età dell’ora passata è riattualizzato in maniera esplicita, diretta, immediatamente comprensibile. Si tratta, a tutti gli effetti, del classico atto nostalgico: il dolore del ritorno per qualcosa che non c’è più e che torna a essere nelle forma di allora. Di queste modalità è peraltro piena la narrazione televisiva, soprattutto italiana. Quindi, se fosse così, sarebbe semplicemente la ripetizione di una categoria in uso.

Invece accade qualcosa di imprevisto. Il rimando al tempo passato non si tramuta mai in rimpianto. Barbara d’Urso riprende l’abito indossato come una riaffermazione di presenza. Gli anni vengono messi tra parentesi. Non c’è prima o dopo, meglio o peggio. È lo stesso. Di fronte al tempo c’è una precisa forma di resistenza. Una sorta di negazione. È come se lo scorrere dei giorni non intaccassero il nucleo essenziale del vivere.

D'Urso vs De Filippi

Questa resistenza è la negazione della nostalgia. La debolezza melanconica che ha nei segni sul corpo (es. le rughe) la via d’ingresso agli effetti del passare degli anni è rovesciata nel suo opposto, nell’eccitazione biologica di un corpo che non si stanca e non invecchia. La televisione di Barbara d’Urso è appunto questo: uno sforzo biologistico che contrasta la decadenza dell’ordine naturale delle cose e dei corpi.

Vivere è resistere al decadere, è contrastare ogni perdita, continuando a crescere, a fare di più. C’è una precisa contrapposizione tra le due principali figure televisive di Mediaset: se Maria De Filippi è la trasfigurazione concettuale, la rete neuronale, che nella comprensione attinge alla vita, Barbara d’Urso è la pulsione vitale, il battito animale, che nella fisicità corporale realizza l’esistenza.

Credit foto: pagina Facebook Barbara d'Urso

Salvatore Patriarca Giornalista, filosofo, imprenditore. Il suo ultimo libro è Il digitale quotidiano (Castelvecchi).

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