Pochi giorni prima dell’inizio dei Mondiali di Russia 2018, Messi aveva posato per la rivista Paper facendosi ritrarre accanto a una capra. Spagna – Portogallo. Ronaldo segna su rigore dopo quattro minuti. Ed esultando, con un gesto della mano mima una capra. Perché? In inglese capra è goat, acronimo di Greatest Of All Times. CR7 ha insomma semplicemente colto la palla al balzo e ha così risposto a suon di gol allo storico rivale blaugrana.

Certo, stando all’avvio esplosivo di Cristiano Ronaldo e quello assolutamente deludente di Lionel Messi, il “premio GOAT” andrebbe di diritto a Cristiano Ronaldo. Il punto però è che accanto alla capra acronimica sussiste un’altra capra simbolica, ben più radicata nella storia e difficilmente riconducibile ad un riconoscimento sportivo. In questo senso, Umberto Saba dedica alla capra una piccola poesia che inizia con questi versi:

Ho parlato a una capra.

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d’erba, bagnata

dalla pioggia, belava.

Incarnazione poetica di una profonda sofferenza, la capra sabiana è decisamente più accostabile a Messi. Del resto quest’ultimo, pur essendo circondato da grandi campioni, appare ben più solo sul terreno di gioco rispetto a CR7, il solista per eccellenza. Cos’è che rende Messi, come la capra di Saba, sofferente e solo? Il suo essere legato. E in fondo la capra è legata da sempre: lo era senza dubbio il capro espiatorio, figura biblica (negativa) assolutamente centrale. Annualmente, un capretto veniva sacrificato al demone Azazel, gettato vivo da una rupe affinché portasse con sé i peccati del popolo d’Israele. Messi, non a caso, è diventato immediatamente il “capro espiatorio” dello storico pareggio contro l’Islanda. Ma in fondo lo era ancor prima di sbagliare il rigore decisivo.

La Pulce, con un palmares a dir poco invidiabile tra palloni d’oro e trofei vinti in tanti anni a Barcellona, non riesce a replicarsi, a dimostrare il suo assoluto valore, in Seleccion. Uno dei più grandi misteri del calcio degli ultimi anni si risolve proprio se si accosta la figura di Messi a quella, simbolica, della capra. Messi fallisce perché, come il capro espiatorio degli ebrei, si fa carico. Egli deve sempre convivere con un peso, che è quello dell’appartenenza a un popolo – sentimento decisamente più smussato nell’ipertrofico Übermensch portoghese. L’Argentina si consegna interamente ad esso, è tutta racchiusa in quel capro solo sul prato ma immediatamente a ridosso di un precipizio, pronto ad essere sacrificato per l’espiazione di colpe altrui. Ma Messi ha a che fare anche con un altro peso: se da un lato ci sono Azazel e i demoni del popolo argentino, dall’altro c’è nientemeno che la Mano de Dios. Maradona è un eroe/divinità della tradizione calcistica argentina e per questo rappresenta il limite invalicabile per uno che, come Messi, è totalmente immerso in quella tradizione. La capra cioè è legata, come quella della poesia di Saba, perché non può macchiarsi di hybris verso il dio, e deve giocoforza fingere di essere “sazia d’erba”, pur avendo lo stomaco adatto per mangiarne di più. Cristiano Ronaldo è avvantaggiato nell’agonistica appropriazione della capra acronimica, quella simbolicamente “rovesciata”. Egli non ha a che fare con sacrifici né con divinità: lo spazio è sgombro e lui, da superuomo ipermoderno quale è, sa occuparlo meglio di chiunque altro.


Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

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