Dibattito particolarmente attuale quello che concerne il cosiddetto “inquinamento acustico”, e sempre più diffusa è la ricerca da parte dei cittadini di luoghi di “pace sensoriale” in grado di restituire un po’ di silenzio rispetto al caos e al rumore metropolitano; e tuttavia gran parte della produzione della popular music più radicale tende al suono totale, ovvero alla saturazione dello spettro auditivo per colmare un vuoto che è anche esistenziale e sociale.

Il silenzio è un elemento imprescindibile di qualsiasi manifestazione musicale. Ogni suono sorge da una zona indistinta che precede il linguaggio; il nulla del silenzio rappresenta l’idea limite dell’assoluto della comprensione. Sia da un punto di vista concettuale, sia da uno più propriamente fisiologico-percettivo, il silenzio assoluto in natura non esiste; il suono ha la funzione di tendere verso l’ammutolire, il non-udibile del silenzio, ma affermandosi come unica via per fare segno verso quest’inespresso/inesprimibile. Ogni suono è intriso di silenzio; la musica è costruzione di suono avvolto dal nulla, che emerge da questo nulla facendosi forma. Il silenzio può essere udito solo attraverso il suono, mai per via diretta; per questo non può essere compreso logicamente, ma solo “paticamente” come mancanza, come idea trascendentale.

L’inespresso si offre all’udito solo per merito dell’espressione, e se così è stato fin dall’origine dei tempi, la musica del Novecento ha preso coscienza di questo assunto trasmettendolo fin nelle proprie fibre ontologiche. L’autore che si è spinto più oltre in questa direzione è John Cage, coi suoi 4’33’’. Nel niente di Cage, cogliamo l’impossibilità del silenzio assoluto, per questo il suo tentativo è volto al fallimento, in quanto ambisce ad una dimensione mistica e irrazionale sconosciuta alla cultura occidentale. Il silenzio assoluto resta inaccessibile: ascoltando i 4 minuti di Cage noi continuiamo a sentire il mondo, un auto che passa, il vento che soffia, il nostro battito cardiaco…

Diverso è il percorso teorico e musicale di un gigante della musica contemporanea, ovvero Anton Von Webern, compositore della Scuola di Vienna di inizio secolo. Webern, nei suoi scritti, ribadisce sempre l’importanza del “materiale musicale”, della “coerenza” e della “costruzione razionale”. Nessun misticismo: Webern è cosciente che la linfa vitale della musica sia il silenzio, e tende ad esso, ma è altrettanto cosciente che senza suono non possa darsi neanche silenzio. Il suo è un silenzio costruito, tecnico, profondamente razionale; le sue Bagattelle sono dei gioielli di tecnica compositiva, anche se questo non si palesa al momento dell’ascolto.

E’ interessante notare come, in alcune manifestazioni della musica odierna, questa ricerca viene affrontata ribaltando i termini; quanto abbiamo sostenuto riguardo al silenzio, può essere detto del suo elemento dialettico e complementare, ovvero il suono. Come il silenzio assoluto, anche il suono assoluto è un’idea limite. Il suono resta sempre vuoto e questo garantisce sempre la sua ascoltabilità; l’autentico suono puro, come il silenzio, sopprimerebbe lo spazio della presenza di chi ascolta, sarebbe manifestazione dell’assoluto, della totalità del suono, dei pensieri, delle espressioni. Da questo punto di vista, l’equivalente di Cage sarebbe il rumore assordante di una fabbrica, o di una diga; non apparterebbe comunque alla musica che invece resta necessariamente anche costruzione razionale dei suoi elementi, organizzazione formale. Invece, in questo schema, la ricerca di Webern, più coerente e concettualmente complessa, sarebbe affiancabile ad alcune manifestazioni musicali “estreme”. Da un lato, pensiamo al progetto Naked City di John Zorn; pezzi brevi, piccole scaglie di caos e delirio strutturalmente ineccepibili e incredibilmente complesse. Si cede alla violenza espressiva, ma celando in sé (come in Webern) una “coerenza” ed una strutturazione interna di incredibile ponderatezza. A tal proposito pensiamo anche all’esperimento di Frank Zappa dal titolo esaustivo The Black Page: la “pagina nera” allude alla trascrizione su pentagramma della composizione, dal momento che l’obiettivo dell’artista era quella di tendere a una complessità tale da riempire (senza ovviamente riuscirci) di nero l’intero spazio della scrittura.

Su questa linea, si arriva a fenomeni radicali e assoluti; un esempio su tutti, la metal band esponente del grindcore The  Berzerker: batteria in 32esimi, ritmi esasperati, riff sovraumani e incomprensibili. Un muro di suono travolgente, difficilmente apprezzabile e godibile, ma anche qui non rumori a caso e suoni alla rinfusa. Passando di livello rispetto al trash metal, i Berzerker portano al limite massimo l’organizzazione razionale del caos, sfiorando il rumore assoluto ma restando distinto da esso per merito della costruzione tecnica e compositiva.


 

Alessandro Alfieri è saggista e critico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa di estetica dell’audiovisivo e cultura di massa. Tra le sue pubblicazioni Il cinismo dei media, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino e Lady Gaga. La seduzione del mostro.

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