Tra le tante prospettive con le quali è possibile guardare Sanremo, una che permette di cogliere a pieno lo spirito di questa sessantanovesima edizione è analizzare come viene trattato il tema di Dio. Fin dalla sua nascita, la musica è considerata corsia preferenziale per rivolgersi al divino. Orfeo, nel mito, la inventa per convincere Ade a restituirgli Euridice. Gli Ebrei fuggono dall’Egitto, e mentre fuggono: cantano. Sant’Agostino, padre della cristianità, scrisse un De Musica. Ma anche la progressiva laicizzazione della musica non rinuncia mai fino in fondo all’originaria matrice invocativa e Dio torna costantemente a far capolino un po’ in ogni luogo della musica contemporanea. Sanremo compreso.

Nei testi delle canzoni in concorso quest’anno è particolarmente evidente, nei riferimenti impliciti ed espliciti, come la riflessione su (o invocazione a) Dio, nella ricca complessità del suo concetto, sia stata una delle maggiori esigenze autoriali. È quantomeno indicativo, ad esempio, che Baglioni abbia scelto di cantare, in duetto con Ligabue, Dio è morto di Francesco Guccini: manifesto di Dio come metafora del Senso o, meglio, di un’Alterità più o meno trascendentale, la cui distanza è misura della propria salvezza.

 

L’esigenza del Padre

Il primo “Dio” emerso in questa sessantanovesima edizione del Festival è senza ombra di dubbio il Padre. L’ultimo ostacolo di Paola Turci, dedicata al padre morto pochi anni fa, è il grido atavico di Noè al centro del “diluvio universale”: l’esigenza di una bussola in un’epoca di flussi e inondazioni, di un ramoscello d’ulivo che sia segno di divina certezza e terragna stabilità. Alla rondine metaforica (e, anche qui, ad un padre malato di Alzheimer) Francesco Renga canta Aspetto che torni. Livio Cori e Nino D’Angelo, in Un’altra luce, dialogano per ricucire la distanza tra un Padre e suo figlio: un compito che presuppone non solo la consapevolezza dell’essere “a immagine e somiglianza” (“Tu assomigli a me”) ma soprattutto la “fede” (“si nun ce crire”), l’affidarsi ad un passato “più alto” che illumini un futuro incerto. L’esser passato del passato è il motivo, del resto, per cui Enrico Nigiotti non riesce a prendere sonno, costretto a fare i conti con la morte di Nonno Hollywood. Insomma, un Dio Padre che abita la complessità di un’alterità antecedente e ora mancante, percepita come “più grande”, e che opprime nel suo esser quella Guida di cui si sente, oggi, la necessità.

 

La discoteca Paradise

Un secondo Dio sanremese è il Dio redentore, quello tipicamente cristiano, il Dio come unica Salvezza. Non tutti se ne sono accorti ma Mi farò trovare pronto, a leggerla senza ballarla, è una preghiera, di quelle che si trovano nei messali. E non c’è di che stupirsi: Nek si professa cattolico convinto. “Mi farò trovare pronto ad ogni regola che inverti…con la guardia sempre alta, anche con i sentimenti. Sono pronto, sono pronto a non esser pronto mai per essere all’altezza dell’amore”: mortificazione di una certa, peccaminosa, passionalità col fine di farsi trovare pronto all’impensabile “altezza” dell’Amore. Al devoto Nek si contrappone lo spirito ribelle di Achille Lauro, così come al figlio ubbidiente della celeberrima parabola si contrappone il figliol prodigo. La guardia sempre alta anche con i sentimenti trova il suo contraltare nella Rolls Royce, automobile o pasticca poco importa: alla fine, anche la straniante manifestazione dell’individualismo punk-pop-trap trova, a Sanremo, l’esigenza di esser ricompreso da una certa alterità, la quale però non figura come padre né come amore, ma come collettività di senso: Dio come buttafuori, con la lista degli invitati in mano. Dio come esigenza, iscritta nella ribellione (e nell’odierno spaesamento), di posti che, alla fine, siano comunque riservati.

 

Parole d’amore

Altro tema centrale in questo Festival riguarda la possibilità effettiva di “dire l’amore”. Einar cerca Parole nuove e lo fa autonomamente: “riscriverò l’amore con parole nuove” significa credere nelle possibilità creative del soggetto umano. Ultimo, invece, sporgendosi sul novum vede solo l’abisso. E nella sua I tuoi particolari, non può far altro che, appunto, affidarsi all’illuminazione, alla grazia, all’evento divino: “Se solamente Dio inventasse delle nuove parole potrei scrivere per te nuove canzoni d’amore”.

 

Curarsi e non-curarsi

Simone Cristicchi in Abbi cura di me canta ancora l’amore, l’alterità divina più materna che paterna in questo caso, il lato del “prendersi cura” o dell’abbraccio che culla. Il Dio di Cristicchi è il Dio-Vita o il Dio-Mondo, secondo la più classica visione inconsciamente panteistica del divino: “Non cercare un senso a tutto perché tutto ha senso, anche in un chicco di grano si nasconde l’universo”; o anche “La vita è l’unico miracolo a cui non puoi non credere, perché tutto è un miracolo tutto quello che vedi”. Ad un Dio già in tutto e già nel cuore (“L’amore è l’unica strada, è l’unico motore, è la scintilla divina che custodisci nel cuore. Tu non cercare la felicità semmai proteggila”) si contrappone, infine, l’assenza stessa della sua ricerca. Arisa è il Lucrezio di questo Sanremo: l’ultimo Dio sanremese è un Dio noncurante, che se ne sta per sé. “Chiedersi che senso ha? È inutile… Se non ci penso più mi sento bene…E prendo la mia vita come viene”: Mi sento bene è un inno all’atarassia (assenza di preoccupazioni), è l’amor fati nietzscheano, non quello stoico del sacrificio al dovere ma quello epicureo ed edonista, tipico del bambino danzante. E la canzone, con un ritmo quasi circense e improbabili salti melodici di quinta, sembra rappresentare quello spirito oltre-umano alla perfezione.

Credit photo: TPI.

Lorenzo Di Maria, molisano, è laureato in Filosofia con una tesi triennale sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève, e una magistrale sulle trasformazioni della democrazia nell’epoca del digitale. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

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