Se si sa dove mettere una cosa, si comprende cosa si può fare con essa. E se è vero che conosciamo solo quello che sappiamo fare, allora se sappiamo dove mettere una cosa conosciamo quella cosa. Ai bambini di pochi mesi vengono spesso regalati giochi in cui si deve trovare la posizione giusta in cui incastrare determinate forme geometriche. Una ventina d’anni dopo, un professore chiederà a quegli stessi bambini di collocare correttamente dei concetti all’interno di una rete di nozioni specialistiche. Lo stesso vale per l’arte: se si sa dove mettere un quadro (dove ha senso mettere un quadro), allora si sa anche cos’è l’arte, cosa si può fare con essa.

Questo ordine di domande accompagnano la mostra “Dipintipinti”, inaugurata il 7 febbraio presso il Nuovo Padiglione Oncologico dell’Ospedale ARNAS Civico di Palermo. Il progetto, a cura di Elena Foddai (psicologa) e Pierenrico Marchesa (direttore Chirurgia Oncologica), “vede la struttura sanitaria trasformarsi in una galleria d’arte”, tramite l’esposizione delle opere di sette autori contemporanei: Alessandro Bazan, Fulvio Di Piazza, Marco Cingolani, Domenico Pellegrino, Davide Mineo, Gabriele Massaro, Fatos Vogli. Il mettere delle opere d’arte in un reparto oncologico cosa ci dice sulla funzione dell’arte nel presente e, dunque, sull’arte stessa?

L’arte come cura

Lo scopo di un ospedale è curare le malattie, ovvero il divenire disfunzionale di una parte del corpo rispetto ad una sua funzione specifica. La malattia e la rispettiva cura è così vissuta per lo più secondo una metafora meccanica: un ingranaggio di quel meccanismo che è il corpo smette di esercitare correttamente le sue funzioni. Nel caso delle neoplasie questa immagine è particolarmente calzante. Tuttavia l’uomo (e la sua esperienza) non è semplicemente identificabile con le singole parti meccanicamente coordinate: l’uomo è anche l’intero come risultato ulteriore, non riducibile alla semplice somma delle parti.

Ne segue che curare l’uomo (l’intero) non significhi soltanto aggiustare (o rimuovere, cambiare, ecc) la parte disfunzionale. Al contrario, anche prendersi cura dell’intero può contribuire al benessere della parte. La bellezza legata alla fruizione dell’arte fa esattamente questo: sa rivolgersi e rinvigorire l’uomo in quanto intero e non come semplice accostamento di parti.

Può farlo perché il piacere estetico, come ha insegnato Kant, riguarda la considerazione di una totalità senza alcuno scopo particolare. Come l’uomo è oltre le singole parti che lo compongono (e i loro fini specifici), così il piacere estetico è oltre le divisioni concettuali dell’esperienza (e la loro fissità determinata). Perdersi nell’arte significa perdersi nella possibilità indeterminata da cui possono germogliare nuovi concetti, nuovi modi di pensare sé stessi e di guardare il mondo. Significa, per chiunque abiti quegli spazi, andare oltre la logica fissa, binaria e terrorizzante (perché data una volta per tutte) della funzionalità/disfunzionalità della singola parte. Significa ritrovare l’interezza dell’umano (ecco “a che serve” l’arte!) attraverso e oltre la malattia.

L’arte come curata

Se il piacere avvertito attraverso l’arte ha a che fare con una possibilità di riconsiderazione dell’esperienza, appare ragionevole come il suo luogo, il posto dove ha senso metterla, sia lì dove l’esperienza ordinaria viene stressata, messa in crisi, stravolta. I musei, generalmente considerati il posto dell’arte, hanno in questo senso una funzione neutralizzante e mortificante sulla ricezione delle opere. Vi prevalgono criteri astratti, di ordine cronologico-geografico (“nella sala V potete osservare le opere del secolo/popolo z”), iconografico (“nella sala III abbiamo i quadri a soggetto mitologico x”) o storico-empirico (“in questa galleria osserviamo le opere della collezione y”). Quando si va in un museo sembra sempre di “dover imparare” nozioni, come se si fosse semplicemente a scuola. E le opere tacciono.

Nell’ospedale il criterio di ricezione dell’arte diventa invece l’esperienza viva, drammatica, concreta che chi passa per quei corridoi sta effettivamente attraversando. L’opera diventa così immediatamente l’oggetto di una interrogazione attorno al senso del proprio stare nel mondo.  È irrompendo in una quotidianità segnata dal dolore che l’”inaspettato” dell’arte può apparire in tutta la sua potenza. Alla fine, forse, più che curare i pazienti, sono proprio i pazienti a curare un’arte percepita sempre più come chiusa, autoreferenziale ed incapace di dialogare con gli uomini.

 

Andrea Ferretti è laureato in filosofia con una tesi sul rapporto tra la crisi della democrazia e le nuove forme della comunicazione politica. È appassionato di calcio, folklori contemporanei e giochi di ruolo.

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