“Naturale no? Naturale”. Così si chiude l’ultimo spot pubblicitario del gigante svedese dell’arredamento. Il 30 marzo, nel cuore dei lavori del contestatissimo World Congress of Families di Verona, Ikea Italia ha pubblicato su Twitter un video divenuto immediatamente virale. Ci sono, in rapida successione, una serie di scene di vita quotidiana che definirebbero quella che è appunto la “naturalezza” della famiglia. La famiglia sarebbe tale in virtù della condivisione di uno spazio comune, dal bagno, al portaspazzolini, alla casa in generale. Famiglia quindi come “sentirsi a casa”, come pura e semplice prassi domestica.

Lo spot è stato immediatamente condiviso ovunque sui social networks, perlomeno all’interno di quella sfera costituita da chi sostiene una visione progressista e moderna della famiglia. Ikea è di colpo diventata la paladina dei diritti civili, protagonista delle homepages di tutte le testate, oggetto di dibattito per un paio di giorni. Qualcuno, forse, avrebbe voluto nominare il responsabile del settore marketing di Ikea nuovo segretario del PD, per acclamazione. Quel che è certo è che l’obiettivo è stato raggiunto. E l’obiettivo della pubblicità di un colosso multinazionale come Ikea non è quello di veicolare un messaggio culturale o sociale progressista. È vendere, arrivare alla più grande fetta di pubblico, avere un impatto persuasivo su di essa.

La pubblicità, di per sé, è parassitaria. Essa dice il suo contenuto nella forma del “comprami” ma ha bisogno di un organismo “ospite” affinché quel dirsi possa avere una voce e la voce una sua direzionalità uditiva. La pubblicità ha bisogno di un vestito attraverso cui ben apparire, di una colorazione che la faccia spiccare, di un buon make-up. E questo travestimento cosmetico è sempre, in qualche misura, “ideologico”, il suo effettivo valore (commerciale) risiede nel valore dell’ideale che essa “adotta”. Il risultato è una perfetta sovrapposizione valoriale tale per cui, all’occhio dello spettatore, risalti un determinato ambito valoriale ideale. Questo però nasconde un altro, più autentico per certi aspetti, ambito valoriale, quello della merce, del prodotto da vendere.

Si tratta di una sovrapposizione assolutamente trasparente ma che cela la sua forza nella capacità di opacizzarsi. Quelle del “parassita” o del “make-up” sono immagini tendenzialmente negative. Qui se ne vuole preservare solo il valore, per così dire, evocativo. Non vuole esserci, insomma, giudizio di merito in quella che è una realtà di fatto. Si ripeterebbe infatti, in questo modo, l’errore di quel tardo-marxismo per cui questo meccanismo di sovrapposizione e opacizzazione non farebbe altro che imporre ad ogni pie’ sospinto il modello culturale-valoriale e il modo di vivere proprio di quel fenomeno da alcuni definito turbo-capitalismo.

L’errore sta nel pensare l’ambito valoriale del capitalismo come antitetico e alternativo a quello per così dire “tradizionale”, ad un precedente ethos di matrice cattolica e pre-moderna. Il segreto dell’inscalfibilità della forma di vita del capitalismo sta nella realizzazione di quella universalità omogenea che, percepita come decadenza e dissoluzione valoriale, è piuttosto una neutralizzazione di quegli stessi valori che restano “a disposizione” ma come gusci vuoti, svuotati cioè di quella “sostanza” che derivavano dal “vecchio mondo”. Non dunque una sostituzione ideologica, tantomeno l’assenza di ideologie: il capitalismo ha trionfato perché le ha ricomprese tutte in una globale neutralità, se n’è appropriato e preserva, in questo modo, l’illusione o quantomeno la percettibilità della differenza.

Si può così ripensare il successo dello spot Ikea sulla famiglia come prassi domestica naturalmente vissuta, nel senso di una scommessa operata a partire da un orizzonte ideologico nei confronti del quale, in partenza, la pubblicità è assolutamente neutrale. Il contenuto pubblicitario (i mobili Ikea) si insinua, così, al di sotto (ma in una semi-trasparenza) di una forma ideologica che ha sempre i tratti della “messa in scena”. In questa libertà capitalistica, in cui l’opportunistico si confonde quasi con l’artistico, la pubblicità può pubblicizzare il suo prodotto assumendo l’aspetto che ritiene più conveniente. O perlomeno più promettente da un punto di vista comunicativo.

In questo modo l’Ikea ha costruito il suo successo, negli ultimi anni, attraverso una visione della famiglia e della casa gay friendly” e progressista, così come per tutti gli anni Novanta e Duemila la Mulino Bianco ha celebrato (e sfruttato) una visione tradizionale della famiglia (papà, mamma, nonno, primo figlio maschio, figlia minore femmina). Di conseguenza, accettare nella visione progressista lo spot Ikea ha lo stesso valore che aveva riconoscere una visione cristiana e tradizionalista della famiglia nello spot della Mulino Bianco: un valore pubblicitario travestito, per l’occasione, da ideale. Di per sé, questo non è un problema. L’importante è esserne consapevoli.

Lorenzo Di Maria, molisano, è laureato in Filosofia con una tesi triennale sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève, e una magistrale sulle trasformazioni della democrazia nell’epoca del digitale. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

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