Si è appena conclusa la sessantanovesima edizione del Festival di Sanremo con la vittoria a sorpresa di Mahmood e della sua canzone Soldi. Le polemiche che ne sono seguite sono un classico della tradizione sanremese, che si è andata accentuando negli ultimi anni a seguito del complessivo atteggiamento improntato alla valutazione giudicativa che accomuna esperti, giornalisti e telespettatori.

Provando allora a muoversi al contrario, contro questo flusso nel quale si palesa sempre un giudizio e molto raramente una descrizione dei fatti, ci sono tre grandi ambiti categoriali mediante i quali è possibile rileggere le specificità di quest’edizione: partecipazione, canonizzazione e storicizzazione. In ognuna di queste dimensione si costruisce una particolare dialettica che è meritevole di essere considerata.

Dialettica di partecipazione – L’avvento dell’era digitale è stata una benedizione per manifestazioni come Sanremo. Essa infatti ha permesso la completa esplicitazione di questa dialettica di partecipazione che si basa su tre figure fondamentali: lo spettatore standard (il prototipo nazional-popolare), lo spettatore disinteressato (il prototipo anticonformista), lo spettatore “di ritorno” (il nazional-popolare internalizzato intellettualmente ed elevato a “cultura pop”). Tra questi tre modalità di spettatori non c’è sintesi e non ci deve essere. C’è solo una dialettica di partecipazione che permette di inglobare tutte le prese di posizione all’interno del grande flusso informativo ed emotivo che è il Festival, garantendone il successo.

Vale la pena evidenziare come, alla fine, conti poco quello che propriamente interessa alla partecipazione dei social network: giudicare. I gruppi d’ascolto, le chat, i tweet, i post sono un ricamare, un istoriare (si potrebbe fare riecheggiare l’etimologia stessa della storia in questo caso) su uno spazio comune di valutazione. Una catalizzazione che accomuna tutti e normalizza un reale di fronte al quale la forma di partecipazione è eminentemente contemplativa.

Dialettica di canonizzazione – C’è un elemento che spesso passa in secondo piano nella riflessione e che invece è il cuore stesso del successo del fenomeno sanremese: la gara. Il fatto che sia una gara attiva una precisa dialettica di costruzione del canone. Ogni criterio di gusto si basa sulla contrapposizione tra un canone statuito (le regole stabilite dalla tradizione che definiscono il bello) e un’emergenza vitale dai contorni indefiniti che preannuncia in sé qualcosa di innovativo. Un classico esempio di questa contrapposizione è quella tra gusto visivo realista della seconda metà dell’ottocento e la rivoluzione delle avanguardie che rivoluzione il modo di vedere il reale. Ma anche a Sanremo è avvenuto spesso ciò: negli anni cinquanta la dialettica tra la tradizione melodica e gli urlatori rockeggianti. Senza entrare nei singoli momenti, è importante evidenziare come il Festival viva di un canone che ne contraddistingue la tradizione. Rispetto a questo canone si misura il successo a breve termine (vittoria), a medio termine (consonanza tra risultato e vendite), a lungo termine (capacità di trasformare il canone) – quest’ultimo caso si comprende meglio se si pensa alle esperienze sanremesi di autori come Vasco Rossi e Zucchero.

Il caso di quest’anno è interessante perché, da un certo punto di vista, ha prodotto un peculiare rovesciamento della dialettica: se infatti il voto popolare ha espresso una preferenza che si potrebbe definire in senso lato canonica (un certo rispetto delle linee autoriali, melodiche e tematiche della tradizione), la giuria ha scelto di prendere carico su di sé la valorizzazione dell’innovazione, scegliendo una precisa linea di valutazione. Ora questo pone un tema, perché le giurie istituzionali vivono nella funzione di mantenimento del canone, le esperienze popolari (da non addetti ai lavori) nel rovesciamento di esse – rovesciamento che si basa spesso sul puro piacere momentaneo e non su una reale comprensione del fenomeno. Ma tant’è, le novità e le avanguardie non si creano (almeno inizialmente) a partire dai giudizi degli esperti. Esistono nella rottura di essi.

Si tratta di un fenomeno interessante, al netto degli inquinamenti intenzionali e delle finalità extra artistiche, che merita attenzione, quello della rimodulazione del canone popolare nell’era digitale.

Dialettica di storicizzazione – Il Festival di Sanremo è davvero uno dei pochi eventi catalizzatori di opinione pubblica in Italia. Per fare un paragone è, per valore, la realtà più vicina al Super Bowl per il mondo americano, cioè l’evento unico, il fulcro che vettorializza il tempo (televisivo e rappresentativo), lo specchio nel quale tutti si riconoscono in quanto appartenenti alla comunità.

Un tratto caratteristico del Festival, in un’epoca legata alla momentaneità e alla velocità dell’istante, è la capacità di resistenza, la capacità di costruire storia, di essere l’evoluzione della propria storia. Non c’è fenomeno nella storia repubblicana italiana che sia paragonabile. Si parla addirittura di seconda e terza repubblica ma per Sanremo non c’è discontinuità. Si potrebbe paragonare agli annales della tradizione romana. Ogni anno accade qualcosa di nuovo, si rappresenta la specificità del presente e, allo stesso tempo, si prosegue una tradizione. Ciò che accade in un’edizione acquista senso e valore nella proiezione prospettica di quello che è accaduto prima.

Per questo la valutazione specifica della singola edizione conta relativamente: è come per i compleanni o i natali, si può stare più o meno bene, essere più o meno contenti, tuttavia si ricordano, si festeggiano e sono delle pietre miliari attraverso le quale si misura il proprio esistere. Così San Remo è l’evento che accompagna e significa, di volta in volta, la standard di normalità rappresentativa della comunità italiana. Alcuni anni, bene; altri, meno bene. Sempre all’interno di un flusso pronto a rilanciare stesso verso il futuro, sapendo di essere tradizione permanente.

Sanremo è finito. Evviva Sanremo (il prossimo).

 

Credit Foto: Pagina Facebook Festival di Sanremo

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