Dave Grohl annuncia che a causa di problemi alla voce il tour dei Foo Fighters dovrà rimandare alcune importanti date; un dispiacere per molti fan di quella che probabilmente è tra le più significative rock band attualmente in attività. Il successo dei Foo Fighters, dalla storia longeva, è un percorso di progressiva maturazione:  sono riusciti, quando poteva sembrare impossibile dato il fantasma ingombrante di Kurt Cobain, a definire un’identità espressiva e iconica specifica e insostituibile.

Infatti, il passaggio dagli anni 90 ai 2000, e soprattutto la svolta decisiva avvenuta con la morta suicida di Kurt Cobain, si palesa nel successo che i Foo Fighters, sorti dalle ceneri dei Nirvana, hanno riscosso negli ultimissimi anni, affermandosi come una delle realtà musicali più importanti degli anni ’10. Fin dal primo disco, uscito a distanza di pochi mesi dallo scioglimento dei Nirvana, porta il marchio dello stile che Dave Grohl ha voluto imprimere al suo progetto: per emergere dal dramma catastrofistico incarnato dal grunge e divenuto tragicamente concreto nel suicido di Cobain, Grohl ha recuperato l’impulso vitalistico attingendo dal rock classico anni ’70. Rispetto al grunge perciò riff più accurati, ma soprattutto aperture tanto melodiche quanto strumentali capaci di restituire un barlume di speranza nella notte del vuoto che aveva già inghiottito Kurt. Per non finire sprofondati nell’abisso, l’intenzione è chiara: lo stile accelerato e potente del rock dei Foo Fighters, così come gli inni urlati su scale ascendenti di Grohl, portano il progetto sul confine liminare con le intensificazioni dell’emo-rock di ultima generazione, senza l’appariscenza teatrale e scenografica dei Tokyo Hotel o dei 30 Seconds to mars. Questo il recupero dell’anima autenticamente rock’n’roll, inteso come dispositivo non autodistruttivo (e neppure eversivo) in grado di convogliare la rabbia repressa: come per Matthew Bellamy dei Muse – che però alimentano l’immaginario anche e soprattutto sul lato performativo e visuale –, le articolate melodie di Dave Grohl sono una forma di riscatto e di traduzione estetica del dolore inespresso, che diventa però energia e perciò stesso opportunità di epicizzazione e romantizzazione della catastrofe. Non si tratta di spensieratezza a buon mercato, quanto di ritorno al nucleo profondo del rock come mezzo di espressione della sofferenza e perciò stesso possibilità di rendere accettabile energicamente quella sofferenza nell’apertura avvolgente, che richiama una collettività di individui altrimenti isolati e sperduti.

I due accordi su cui si strutturano tutte le strofe di un singolo del 1997 come My Hero (Mi e Do#) esprimono bene questo punto: non si tratta del pendolo ossessivo e claustrofobico di Heroin dei Velvet Underground e neppure i due accordi di Molly’s Lips dei The Vaselines interpretata dai Nirvana e inserita nell’album Incesticide, che è una litania paranoica senza scampo. In My Hero la sessione ritmica cadenzata è in funzione dell’esplosione viscerale del ritornello, che lascia entrare il terzo accordo (La) per poi tornare ai due accordi in senso discendente e commovente, dove Grohl esalta e invoca il “suo eroe” come figura redentiva. Un eroe che comunque è ordinario e al servizio di tutti, capace di illuminare il vuoto e mettere ordine, seppure una volta che ha fatto il suo dovere viene osservato in maniera commossa mentre se ne va via, portando però con sé la promessa di ritornare. Può anche non tornare l’ “eroe”, e tuttavia la potenza della voce di Grohl che spesso si traduce in urlo ed è malinconica perché come “fuori tempo massimo”, si dimostra proprio per questo estremamente seduttiva e coinvolgente, dal momento che se siamo stati abbandonati in un mondo senza eroi ci resta quantomeno il ricordo e soprattutto la speranza che il nostro eroe vegli su tutti noi: un’invocazione nel buio più nero che squarcia le tenebre, come sarà l’invocazione quasi evangelica di Gods my witness (“Hear my soul tonight!”) e soprattutto il trionfo di speranza vitalistica di I’m a River, che proprio come un fiume rompe gli argini nella lunga coda e che apre come un risveglio repentino: “There is a secret, I found a secret […] There is a reason, I found a reason”.

Grohl si rivolge al suo ascoltatore, pregandolo di continuare a crederci, di non mollare e di “tirare fuori il meglio”, e lui stesso si sente parte del gruppo a cui si rivolge (il “noi” che sostanzia l’elegia springsteeniana si ritrova infatti proprio nei Foo Fighters): come suona il titolo dell’album pubblicato nel 2007, si tratta di coniugare gli echi, il silenzio, la pazienza e la grazia, e proprio il rapporto dialettico di queste due ultime categorie innerva il senso complessivo della produzione della band, perché la pazienza è l’attesa indefinita per qualcosa che non approderà mai, e la grazia non è l’approdo ma la promessa stessa, proprio l’attesa speranzosa perché come sosteneva Walter Benjamin “solo per chi non ha più speranza ci è dato sperare”.

Credit Foto: Amy Harris / Invision / The Associated Press

Alessandro Alfieri è saggista e critico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa di estetica dell’audiovisivo e cultura di massa. Tra le sue pubblicazioni Il cinismo dei media, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino e Lady Gaga. La seduzione del mostro.

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