Classe 1984, Livia Massaccesi è la visual designer “iconica” del Festival di Sanremo. È stato il regista della kermesse canora, Duccio Forzano, a esprimere la volontà di farle realizzare i ritratti dei 24 artisti in gara e dei conduttori e di inserirli nella veste grafica di questa sessantanovesima edizione.

Il progetto dei ritratti ha alle spalle diversi anni di studio sulla comunicazione visiva dei volti, cercando tutti i particolari che li compongono e considerando come questi si inseriscono in relazione fino a costituire la conformazione di un soggetto.  Intervista.

L’intelletto umano può pensare solo le idee semplici. La complessità delle idee impedisce una visione simultanea, accade quindi che con l’ausilio dei molti particolari la mente si trovi ad assemblarli giungendo solo attraverso questa somma  a una forma definita e completa dei diversi pensieri. Pensare senza il segno e senza la sua definizione non sarebbe soltanto difficile ma sarebbe non pensare.

Il tuo lavoro per questo Festival è stato sul ruolo dell’icona, a metà tra quello che è e come appare, come sviluppi il concetto di identità visiva?

Bisogna premettere che solitamente, per esempio quando lavoro con etichette discografiche alle copertine dei dischi, cerco sempre di capire qual è il contenuto che l’artista vuole veicolare per convertirlo in immagine. È necessario partire dalla considerazione che l’artista ha del suo testo, come il brano viene trasposto in videoclip, oppure l’abbigliamento e l’estetica che lo identifica.
A Sanremo, invece, la rappresentazione dei volti non doveva incarnare un dato percorso dei concorrenti ma unicamente la loro immagine: è stato come ideare un logo, seguendo un codice che portasse alla vera e propria identità visiva. Possiamo paragonarlo alla creazione di un brand, che può coinvolgere la musica ma anche qualsiasi altro campo d’azione.

Tipizzare il volto umano: secondo te il futuro è in sottrazione?

È stato abbastanza istintivo lavorare in sottrazione perché è nella mia indole, solitamente comunico in modo sintetico, non parlo se non ho niente da dire e questo accade anche con il mio lavoro.
La nostra generazione, poi, è cresciuta con il mito del “less is more” e adesso arriviamo alla sostanza nell’immediato, rendendo addirittura le interazioni rapide e veloci, caratterizzate da pochissimi elementi e, sì, credo che tutto quello da cui siamo circondati stia andando in questa direzione: dal linguaggio all’arte, dalla musica alla cinematografia, il principio è quello di togliere fino ad arrivare a una dimensione completamente destrutturata.
Se il futuro continuerà a seguire questa direzione? Mi auguro di no, siamo arrivati ai confini della sinteticità e questo, neanche specificatamente nell’ambito artistico, potrebbe togliere qualità prodotta o immaginata.
Da un punto di vista specificatamente lavorativo la sintesi non rappresenta una comodità, anzi, gli elementi costituiscono un linguaggio altro, molto più determinante e accrescitivo.

Effettivamente i particolari che poni in evidenza costituiscono un segno ipersignificativo e caratterizzano il personaggio fino alla resa di una figura inequivocabile.

Sì, posso dire che nel mio studio e nel mio modo soggettivo di rappresentare gli elementi, per esempio, gli occhi non sarebbero mai una sintesi fedele alla realtà. Riportare un occhio a questo tipo di sottrazione per me significa spersonalizzarlo, mentre proprio le labbra diventano icona.
Lavoro sul ghigno, sull’inclinazione, sulla regolarità o sull’asimmetria e ritrovo l’espressione. Se dovessi considerare gli occhi perderei paradossalmente “la parola”. Annetto poi barba e baffi se ci sono, o alcuni dettagli che considero essenziali rispetto alla forma: sicuramente, però, non perdo la manualità del disegno. Ogni personaggio viene costruito prima dalla mia mano poi inserito in un sistema di tipo vettoriale, che segue delle curve geometriche, quasi matematiche e che verrebbe completamente privato della naturalezza delle sue proporzioni se prima non venisse pensato fuori dalla griglia.
Incredibile poi è il concetto di profondità: questi disegni non lo considerano ma al variare di un solo particolare della linea naturale il volto cambia completamente connotazione e conformazione. La questione della profondità mi aiuta anche a non lavorare in presenza, per creare questi ritratti ho guardato i video dei singoli aritisti, disegnato alcuni elementi caratterizzanti assemblandoli solo in un secondo momento, quando il particolare diventa universale.

Che ruolo ha la cromatica all’interno del tuo lavoro?

Solitamente lavoro con una cromia molto realistica nella rappresentazione del soggetto, sono colori spesso tenui che possono rappresentare, ad esempio, il tono naturale dei capelli, ma, quando inserisco il ritratto su un fondo colorato o in applicazione su un supporto, lavoro sui contrasti netti. Miro a cercare la parte realistica del soggetto e l’opposizione con il resto.
I colori di fondo sono solitamente molto fluorescenti o molto forti rispetto alla persona che è ritratta o viceversa. I freddi e i caldi servono a partire da un dato di realtà che si converte in schizofrenia quando il personaggio si staglia sulla cornice. Poi capita di scegliere anche in base alla sensitività e al colore che la persona emana.

E se il lavoro di Livia Massaccesi fosse un genere musicale quale sarebbe?

Un’artista in cui mi sono sempre molto riconosciuta è Saint Vincent, un’eclettica complessa e avanguardista, è sempre riuscita ad applicare al suo prodotto uno studio visivo e di immagine sintetico ma pieno di significato. È una polistrumentista bravissima, il suo stile polisemico si serve di alcune parole per caricarle di segni allegorici e analogie, ma un occhio non esperto potrebbe non accorgersene, non riuscire a percepire ogni sua complessità e limitarsi a captare la sua comunicazione sintetica. Se il mio lavoro fosse musicale, sarebbe elettronico, sarebbe James Blake!

 

Tagged with: , , , ,