La musica indie sgretola l’ideale di maschio alpha meglio dei tomi del femminismo di terza ondata. Ci parla della sconfitta con una banalità che disarma e con l’irriverenza di chi ha elaborato il lutto e può placidamente sorridere della sorte beffarda.

Il disfacimento e la possibilità di ricostruire in modo mai ultimo e definitivo. E la sicurezza, forse l’unica, quella dell’abisso appunto, che culla placidamente colui che sta precipitando, sono la cornice del relativismo inesorabile e soffocante che è cifra esistenziale della nostra epoca. Lo spaesamento sofisticato, che si rigenera continuamente nella società dell’immediatezza, viene interpretato da una poetica indi(e)pendente, anzitutto dai generi musicali del passato. Si tratta di una forma cantautorale stravolta e rielaborata fino a cedere e restituirsi in frammenti di vita, plot stereotipati di storie d’amore e turbamenti, concreti riferimenti trash, kitsch e pop fortemente evocativi di una farsa ultra contemporanea che raccoglie l’esperienza umana immortalata in quel sorriso acre strappato all’ascoltatore.

La musica indie restituisce in versi istintuali, di una brutale semplicità, quello spaccato di quotidianità frastagliata dalle infinite possibilità che pietrificano sul far della scelta. Così con Calcutta, I Cani, Motta, Willie Peyote, Cosmo, Gazelle, The Giornalisti il senso del tragico non viene destituito ma è la nota vincente che muove melodie spiazzanti, dall’anima rock, pop o elettro fino a rasentare la psichedelia. Scritte di getto per dire quello che nessuno direbbe. Nella spiazzante istantaneità che abbina immagini minimal di un ridicolizzato contemporaneo a un cono d’ombra di fallimenti e delusioni che, in fin dei conti, universalizza braccando qualunque fuggiasco da se stesso e da una certa vulnerabilità celata da studiata arroganza. La linea di fruizione di questa tragicità si modifica attraverso plateali dichiarazioni d’impotenza che cadono fuor di metafora per garantire un grezzo fondamento sul quale edificare una poetica antiveritativa in cui le cose vanno prese “così”. E allora niente più rime e ritornelli, piuttosto un (apparente) nonsense testuale dal ritmo sincopato che ci parla di una bellezza rotta, anticipata dalla cruda descrizione dei cocci.

L’urgenza artistica di questo genere musicale risiede della narrazione di un solipsismo, prettamente maschile, non più in grado di garantire e sostenere le solide realtà che la società ha tradizionalmente ascritto all’essere umano maschio. Il manifesto di questa tendenza, che ha riscosso immensa popolarità nel panorama musicale italiano, risiede nella dichiarazione, convulsamente ironica e giocosa, di una fragilità generazionale che diviene grammatica di una comunicazione esistenziale con il pubblico. Il  consenso si richiama ad un meccanismo di tempestiva immedesimazione attraverso  un universo di leitmotiv strappati al quotidiano, per ridere e prendersi gioco di una tristezza da condividere in un calderone di umana fragilità. Al suo interno anche la porzione maschile del mondo ha spazio per inveire, dissolversi e piangere su quello che non fu esattamente un amor cortese.

Federica Serafinelli studia Filosofia alla Sapienza.  È appassionata di arte, piante esotiche, lunghe passeggiate in luoghi da esplorare e nei quali perdersi.

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