Ascoltare musica in senso stretto significa viverla, strutturare la propria esistenza in base all’ascolto, ridefinire perpetuamente le proprie categorie di riferimento, le modalità di relazione intersoggettiva nonché emozioni e sentimenti. La spontaneità è un falso mito: l’immaginario della popular culture è il motore di ispirazione del nostro essere al mondo, perché per dirla in termini heideggeriani oltre ad “aprire-un-mondo” – ovvero riflettere e documentare una realtà già esistente alla quale relazionarsi –, la produzione dell’industria culturale “pone-qui-la-terra” – ovvero rinnova l’orizzonte all’interno del quale si rivela la verità, perché istituisce e regola il mondo del vivere e del patire, senza ridursi a rifletterlo.

L’ascolto musicale inteso come definizione esistenziale è una delle cose più belle per le quali vale la pena vivere: bisogna sempre diffidare di chi pretende di imporre ascolti, letture, prodotti seriali, mode, look, a prescindere da una ipotetica maturità garantita dal proprio profilo di genitore, insegnante, adulto. Bisogna anche diffidare di chi accusa l’altro che i suoi ascolti facciano schifo rispetto ai propri, e questo per diverse ragioni:

1) La tensione diacronica (ovvero generazionale) e sincronica (definita da vari generi, modelli sociali, passioni rivolte a personaggi diversi) è quintessenziale all’immaginario e alla sua dinamica dialettica da sempre, da quando esiste la cultura di massa e forse fin da prima: l’identità e la vita definite dall’ascolto e dalla passione si nutrono in buona parte anche di un movimento oppositivo, per cui io mi sento orgoglioso dei miei “gusti” e delle mie preferenze in rapporto alla denigrazione di quelli altrui (storicamente possiamo pensare a come tutta la storia del rock e della popular music possa essere ricondotta all’opposizione, solitamente duale, di vettori identitari). Queste opposizioni duali si ramificano in maniera plurale, dalla macrodimensione (che di solito è quella generazionale, dal momento che gli adulti non hanno gli strumenti per addentrarsi nella ramificazione e nella pluralità), perciò per esempio “musica rock” vs “musica leggera”, poi scende sempre più in profondità (es.: musica metal vs musica grunge – Nirvana vs Pearl Jam – i primi dischi vs i dischi recenti del successo internazionale e massmediatico ecc.). Non potrebbe esistere cultura intesa come forza di definizione dell’identità senza tale azione opposizionale di esclusività.

2) L’argomento che spesso si sostiene per avvalorare la propria posizione rispetto a quella altrui è quello della “tecnica”: chi sa suonare vs chi non sa suonare, chi è bravo e chi non lo è, chi è un “poeta” e chi è un mero “ciarlatano”. È un argomento che non ha alcuna efficacia, perché specie nell’ambito del rock scade sempre nel mero relativismo (dovremo tutti ascoltare solo Mozart). Molte produzioni rock e rap provengono dall’area anglofona, ed è raro conoscere bene il testo mentre si ascolta: se comprendessimo esattamente i testi ci accorgeremo che spesso anche le parole di canzoni di mostri sacri sono banali e ripetitive. Non solo: dal punto di vista degli arrangiamenti, molte produzioni pop sono ben più sofisticate e sperimentali di usurate soluzioni progressive, così come i beat di tanti vituperati trapper sono di gran lunga più studiati e innovativi rispetto a certa musica rave o band elettro-rock.

3) Se così stanno le cose, c’è da chiedersi come una buona dimensione pedagogica possa affrontare il tema dell’ascolto musicale, perché a mio avviso questa resta un’esigenza per confermare la responsabilità didattica ed educativa che gli adulti devono assumere rispetto ai più giovani. Di certo, non dicendo cosa ascoltare, bensì “come” ascoltare: a quel punto qualsiasi canzone, anche la più oscena, perversa, violenta, può venire consumata. Il “come” è il modo attraverso il quale la filosofia intesa come “pratica dei concetti” può affacciarsi già in giovane età a quegli studenti restii a tenere la testa piegata sui manuali; ascoltare “filosoficamente” significa infatti cogliere i significati profondi di ciò che si ascolta, superare la fruizione irriflessiva tipica dei prodotti di consumo massivo e fare delle canzoni (così come dei film, delle serie, dei prodotti di fashion) delle “immagini dialettiche” direbbe Walter Benjamin: questo significa cogliere nel prodotto anche il processo di produzione, interrompere la seduzione feticistica della merce, e questo è possibile solo se la riflessione intellettuale mantiene un “distacco” salvifico rispetto al fenomeno (ne propongo un esempio in un mio articolo dedicato a Sfera Ebbasta). Questa è l’impresa più ardua, perché se come abbiamo detto la musica struttura la nostra vita, stabilendo con noi un rapporto individuale e psicologico imprescindibile, allo stesso tempo un ascolto sano presuppone l’analisi gelida dell’oggetto, al quale però bisogna sempre dare dignità di oggetto di analisi. Quella dignità è garantita dall’attrazione seduttiva, e la soddisfazione di poter ascoltare ciò che ascoltano gli altri godendo dei medesimi prodotti, ma con una maggiore consapevolezza concettuale e tecnica, è massimamente seduttivo: si tratta del fascino della conoscenza e dell'intelligenza.

Per prima cosa, bisogna evitare di confondere piano dell’immaginario e piano della vita concreta: i ragazzi sono meno scemi di quello che possiamo pensare, e non bisogna pensare che se si ascoltano i Black Sabbath mangino pipistrelli a colazione, se ascoltano Sfera Ebbasta vadano in giro con protesi d’oro ai denti, se ascoltano Snoop Dogg coltivino e consumino ossessivamente marijuana (così come, se vedono Mission Impossible al cinema, non si gettano da un palazzo). Credere che il rapporto dei giovani con la musica sia così “immediato” e didascalico significa non avere molta fiducia nei giovani stessi, con la consapevolezza che purtroppo coloro che hanno carenza di facoltà cognitive esistono dappertutto (soprattutto tra gli adulti).

Il consumo vigile, intelligente e “critico” anche dei prodotti coi quali si instaura un rapporto “passionale” è ciò che andrebbe insegnato, senza vietare di andare ai concerti; le gallerie d’arte, i programmi di storia, i concerti di musica classica non sono per ragazzini, anzi si ripropone fortemente quella dialettica oppositiva del punto 1 (diventa un atteggiamento cioè controproducente). Dal momento che i giovani sono meno scemi di quello che si può pensare,molti di loro arrivano a tale maturità da soli quando i genitori hanno fatto un buon lavoro: magari lo hanno fatto inconsapevolmente (poco conta) e indirettamente invece che didascalicamente, perché si è trasmesso il senso del sacrificio e della serietà delle cose, dell’affetto e del rispetto. Per quanto riguarda invece coloro che non hanno una brillante intelligenza, essi rischiano di cedere alle lusinghe dell’imitazione spuria di “distacco critico”, allora le istituzioni educative ma anche le altre figure di riferimento hanno del lavoro da fare (non certo portando i ragazzi alla mostra sull'Astrattismo o consigliandogli l’ascolto di De André, anche perché se il soggetto in questione ascolta Il bombarolo tratta da Storia di un impiegato allora il rischio si ripresenterebbe centuplicato rispetto all'ascolto di un qualsiasi brano di Ghali).

Alessandro Alfieri è saggista e critico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa di estetica dell’audiovisivo e cultura di massa. Tra le sue pubblicazioni Il cinismo dei media, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino e Lady Gaga. La seduzione del mostro.

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