Da poche settimane è disponibile online l’attesissima quinta stagione di Bojack Horseman, una tra le serie più amate dell’universo Netflix. Cosa rende unica questa serie? il continuo rimbalzo meta-cinematografico dentro/fuori; episodio dopo episodio i piani sono sempre più confusi e la spiegazione arriva solo una volta raggiunto il punto più alto di sovrapposizione percettiva, nella season finale. Una stagione che offre, come sempre, spunti di riflessione importanti, ma che trova una vetta difficilmente replicabile nella sesta puntata. Da qui in poi, “spoiler alert”: è sconsigliata la lettura a chiunque non abbia ancora visto la serie o l’episodio in questione.

La sesta puntata si apre con un flashback che funge da chiave di lettura per il resto dell’episodio. Una giornata uggiosa, un Bojack bambino silenzioso e insicuro, un padre che in macchina gli vomita addosso la sua inettitudine e il suo essere inadeguato rispetto alla più banale quotidianità familiare: la moglie ha “un altro dei suoi disturbi” e gli rende la vita impossibile. Ma a Bojack tutto questo deve servire da lezione: deve imparare che non può dipendere da loro, tutt’altro che genitori esemplari, come da nessun’altro, che nessuno si prenderà mai cura di lui (“no one else is gonna take care of you”). Sigla. Bojack adulto, al funerale della madre.

L’episodio è il primo caso di monologo teatrale inserito in una serie animata. I venti minuti scarsi che seguono la sigla sono un ininterrotto elogio funebre in cui Bojack si lancia in un flusso di coscienza senza freni e nella ricerca continua di un impossibile dialogo con la madre. Dialogo che però impossibile è sempre stato. Dialogo che avrebbe voluto dire amore, laddove – nota Bojack – amore e dialogo condividono la reciprocità, la costanza, l’impegno, il progressivo e lento avvicinarsi. Tutto questo non avvenne mai. Sarebbe bastato dunque anche solo un piccolo grande gesto da parte della madre. Un gesto semplice, come quello della cameriera che, presa da compassione, offre all’equino attore di Hollywood un churro gratis.

Bojack ha aspettato una vita intera quel gesto, convinto che prima o poi sarebbe arrivato. Ma Bojack che vive nella continua sovrapposizione tra vita reale e finzione cinematografica, è ben consapevole che le serie tv “non possono” finire male, e quando finiscono male è solo perché ci sarà una nuova stagione, è solo perché c’è ancora da attendere. Ma poi finiscono comunque. La madre è morta e quel gesto non è arrivato. O forse sì. Bojack ricorda a quel punto le ultime parole della defunta madre: “I see you”. Sarà forse quello il gesto d’amore tanto atteso. Ma lo si può davvero definire tale? Per una vita intera, Bojack ha desiderato solo di essere visto, e quello sguardo è arrivato sadicamente nel momento stesso in cui si è sottratto per sempre.
Cosa significa essere visti? Quale desiderio esprime la ricerca di uno sguardo?

Le star cinematografiche si offrono per loro natura ad uno sguardo, si mettono in mostra per raccogliere sguardi. Fin da bambino Bojack vuole fare l’attore perché vuole “esser visto”. E la madre stessa chiede che la bara sia aperta perché possa “esser vista”. L’esser visti è possibile solo se si nuota in superficie, solo se ci si offre alla possibilità di essere avvistati. È possibile divenire idoli esposti allo sguardo solo nel momento in cui ci si ricorda di saper nuotare. Come quando la madre di Bojack, smessi i panni severi e cinici iniziava a danzare alle feste. E a tenere a galla è proprio l’occhio di chi vede, perché da quello sguardo si assume coraggio, la consapevolezza che qualcuno “badi” a me, che non sono solo ma c’è sempre un confortevole “altro” che mi guarda. Bojack si arrabbia quando capisce che la madre, nell’istante della morte non stava facendo altro che leggere la sigla I.C.U. (Intensive Care Unit) della terapia intensiva. Ma quel “care”, quel prendersi cura, riecheggia dalla prima sequenza dell’episodio. “Io ti vedo”, ovvero “io mi prendo intensivamente cura di te”. Il desiderio di sguardo è un desiderio di cura.

Ma quello sguardo non cura perché si sottrae, finisce nello stesso istante in cui, finalmente, si era dato. In una certa tradizione teologica, lo sguardo divino, salvifico, di grazia, si dà proprio nell’in-visibilità, nell’impossibilità dello sguardo, della sopportazione umana di quello stesso sguardo. Quella stessa nera in-visibilità si è poi secolarizzata ed è stata tradotta, in psicanalisi, nel profondo e oscuro inconscio. Bojack lo sa perfettamente: sua madre, suo padre e lui stavano annegando nella disperazione esistenziale senza possibilità alcuna di salvezza, ma ne erano consapevoli e lo stavano facendo insieme. “Io ti vedo” è la serie che finisce mentre si continua a sprofondare. È sguardo d’amore che si dà nelle buie profondità marine, che redime perché mette un punto, perché è fine ma senza salvezza. Redenti ma non salvi: non è forse questa la condizione umana più propria di quest’epoca?


 

Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

Tagged with: , , , , , , , , , , ,