Rafa Nadal è un tennista spagnolo, maiorchino di nascita, dal palmares sterminato. Ha vinto diciassette titoli dello Slam, undici titoli al Roland Garros. Ha trionfato sull’erba e sul cemento. Numero uno al mondo per oltre centocinquanta settimane. Eppure, quando si parla di lui, sembra sempre che manchi qualcosa. Cos’è propriamente che non permette a Nadal di accendere la fantasia e trasfigurare il campione in mito?

Il tennis è uno sport che si presta alla letterarietà. E questo è vero prima dell’avvento di Federer e di David Foster Wallace. In Italia, c’è il luminoso esempio di Gianni Clerici e della sua Suzanne Lenglen, delle sue narrazioni ironiche e impressionistiche con il mago dei numeri, nonché amico, Rino Tommasi. C’è la grazie afroamericana di Arthur Ashe, la compostezza di Ken Rosewall, il dominio di Rod Laver, la stravanganza di Ilie Nastase, la ritrosia di Bjorn Borg, la grinta di Jimmy Connors. È facile trasformare il giocatore di tennis in qualcosa che vada al di là del suo semplice essere umano e ludico per farlo diventare l’incarnazione di un valore, qualcosa che va al di là della semplice naturalità. Se si prendesse l’idea di talento puro, cristallino, intatto, grezzo e incontrollato, il riferimento non potrebbe non andare ai due mancini luciferini del tennis mondiale: John McEnroe e Martina Navratilova. Se invece si volesse pensare alla sintesi degli opposti, non si potrebbe esimersi dal pensare ad Andrè Agassi e Steffi Graf, lontani sul campo in tutto e coppia nella vita reale.

In questo esercizio del concetto applicato al gioco, Roger Federer si cala alla perfezione. Ideale apollineo in purezza. Luce assoluta. La perfezione in movimento. I suoi gesti sono disegnati dalla mente. Le traiettorie garantite dalla logica. Non c’è nulla di eccessivo. Tutto è garantito da una naturalità che sfida l’idea stessa si fatica. Non c’è distanza tra il pensiero e l’essere. Ciò che dovrebbe essere, in Federer, è. A questo si aggiunge un carattere gioviale e serafico, come un dio dell’Olimpo chiamato a occuparsi degli affari mondani che di buon grado si diverte a intrattenersi con le creature. Non appare debolezza. La completa naturalezza della rappresentazione lascia cadere in secondo piano anche la particolare forza mentale, nonché la convinzione totalizzante, che tutto ciò possa realmente accadere. È questo forse il mistero più insondabile di Federer che lui stesso nella consapevolezza di sé non abbia rotto l’incantesimo, ma l’abbia lasciato essere ed esprimersi fluidamente.

Di Nadal non si riesce ad avere la stessa esperienza. Per il campione spagnolo non si riesce a nutrire lo stesso trasporto. Eppure la vittorie sono tante e l’impronta che sta lasciando sulla storia del tennis è incontestabile, come le imprese fisiche e tecniche che sono ai limiti dell’epica. Però non si riesce ad andare al di là del razionalmente concepibile. Qui c’è qualcosa che non torna. Nadal ha tutto. Ha forza fisica. Ha preparazione atletica. Ha tecnica. Ha tattica di gioco. Ha una capacità di concentrazione fuori dal comune. Colpisce di dritto come pochi prima di lui e ancor meno dopo. La risposta usata dai detrattori è usualmente: non ha talento. È evidente come questo sia un giudizio dettato da una visione miope. Nadal ha talento, non può non averlo, considerando il livello che ha raggiunto. Forse manca di eleganza, ma questo valeva pure per Borg come per Connors e per loro non è stato un ostativo per la trasfigurazione simbolico. Forse eccede in freddezza, ma questo era il tratto essenziale di Ivan Lendl e non è stato per lui un ostacolo nel trasformarlo nel tennista robot che ha nella distante razionalità il tratto caratteristico.

Tutti le lacune che si possono additare a Nadal non sono in fin dei conti tali, perché Nadal è in un certo senso perfetto. Come Federer. Questa perfezione è però nel tennista maiorchino costruita e consapevole. Non c’è alcun velo di ulteriorità. Nadal è se stesso, fino in fondo. È la ragione che guida il corpo, è la tattica che guida il braccio, è la forza che apre il diritto anomalo a tagliare il campo. Tutto è espresso, esposto nella consapevolezza del disegno e nell’approssimazione del risultato.

Manca quella fragilità, che sempre si presenta in Federer, della perfezione come accadimento, come momento di grazia dalla provenienza insondabile che da un momento all’altro può svanire. In Nadal non c’è oscurità, non c’è non detto. È lì, nella luce pura del Mediterraneo, nella certezza di misurare le cose con la ragione. È talento applicato, Nadal. Il talento che costruisce i ponti, crea i grattacieli e chip dei computer o degli smartphone. È il talento che dimostra come si sta al mondo in maniera efficace e utile, senza domandarsi mai perché si sta al mondo.

Nadal è la razionalità che assorbe la naturalità, non la trasfigura. È il concetto che trasforma il mondo e non il concetto che diventa mondo. In questo dominio, in questo eccesso antropologico, da Prometeo senza catene e dolore, c’è il limite del maiorchino, la soglia al di qua della quale non c’è mito, non si produce la misterica generazione di senso.

Credit foto: pagina Facebook Rafa Nadal

Salvatore Patriarca Giornalista, filosofo, imprenditore. Il suo ultimo libro è Il digitale quotidiano (Castelvecchi).  

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