Il nome della rosa ha debuttato ieri, come serie televisiva, su Rai Uno. Sempre ieri si sono verificate le morti di Luke Perry, il Dylan McKay di Beverly Hills 90210, e di Keith Flint, il cantante dei Prodigy – morti che per molti rappresentano la fine degli anni novanta. Mantenendo la similitudine simbolica, si potrebbe dire che sempre ieri c’è stata la morte dell’immaginario degli anni ottanta.

Il nome della rosa, infatti, è un eccezionale prodotto culturale del decennio che, secondo un vulgata ormai per fortuna sempre meno pensata, sarebbe il decennio del disimpegno e del non pensiero. Il romanzo di Umberto Eco esce proprio all’inizio del decennio, il 1980, e il film con la regia di Jean-Jacques Annaud e l’interpretazione di Sean Connery nel 1986. Si tratta di un connubio narrativo (testo letterario) e visivo (racconto cinematografico) decisivo per il superamento di quella divisione tra cultura alta e cultura di massa. Il libro di Eco, al di là della valutazione puramente letteraria che gli si possa riconoscere, ha determinato una svolta epocale nel pensiero: ha reso “prossimi” un’epoca storica, concetti estetici, filosofici, teologici; è riuscito a restituire una complessità del vivere del passato di cui ancor oggi ci si nutre. Il film, a sua volta, è riuscito a non tradire lo spirito del libro, a creare una realtà livida, tetra, ma con continue scintille di intelligenza, dignità ed eticità, intrecciando con sapienza il piano della grande storia con quello della vita dei singoli. Immaginare qualcosa come il Game of Thrones del ventunesimo secolo senza Il nome della rosa di Eco e di Annaud è davvero complicato.

Rifarsi a questo patrimonio visivo e concettuale, provando a rifigurarlo, a spingerlo più in là, dimostrando la sua capacità di attualizzarsi alle evoluzioni del sentire, si connota come un’operazione coraggiosa e, forse, anche necessaria. Quando un mondo immaginario, un mondo-del-come-se avrebbe detto Husserl, entra così a fondo nella cultura popolare, il tentativo di continuare ad attingere a quel serbatoio di senso è un atto di riconoscimento di grandezza e di rispetto della tradizione. Purtroppo nella serie, almeno stando alle prime puntate, non c’è traccia di coraggio, di rifigurazione simbolica o di rinnovamento visivo di quel mondo. C’è una forte operazione mimetica, intesa nel senso più letterale e deteriore del termine, cioè pura imitazione. Una riproposizione diretta e scialba di una realtà visionaria che non sembra fino in fondo mai afferrata o compresa davvero.

Al di là delle molteplici analisi sulle quali ci si potrebbe avventurare, ci sono tre aspetti essenziali che meritano di essere evidenziati: uno narrativo, uno tecnico e uno concettuale.

Narrativo – Rimane ancora forte l’idea, per molti aspetti retrograda, che la serie televisiva sia un film “allungato”. Non è così. Si tratta di un genere a se stante, che ha caratteristiche precise e porta con sé una libertà di rimodulazione della materia letteraria enorme. Rispetto all’universo de Il nome della rosa le possibilità sarebbero state enormi. Si poteva pensare di seguire con lunghi flashback la costruzione del carattere di Guglielmo, si sarebbe potuto costruire un percorso di avvicinamento all’evento dello stare in abbazia, dove di ogni singolo protagonista (con episodi quasi monografici) si definiva il percorso di arrivo. Si sarebbe potuto divagare davvero sul piano della storia papale e imperiale per poi via via scendere verso il piano personale, dimostrando implicitamente come tutto poi alla fine sia una questione privata. Si sarebbe potuto fare questo e altro. Quello che non si doveva fare era “allungare” la narrazione. Prendere il film, ancor più del libro, e moltiplicare per circa tre volte il tempo narrativo della singole scene, aggiungendo per lo più particolari secondari, ecco questo non andava fatto. Guardando il succedersi delle scene, non si ha mai la sensazione di un emergere di senso imprevisto. È sempre qualcosa di già visto, di già detto che viene attualizzato (male) non si comprende bene per quale ragione.

Ecco, il difetto narrativo è davvero evidente nel senso proprio che non c’è. Il moloch della tradizione (ormai Il nome della rosa è patrimonio mondiale della tradizione letterario-immaginifica) si può attaccare, si può trasformarlo, farlo anche male e fallire. Non si può banalmente copiarlo, perché si rischia di cadere nel superfluo.

Tecnico – Qui c’è un’altra forte barriera nei confronti della serialità come prodotto dalla scarsa qualità tecnica. Si tratta di un approccio continentale europeo e, soprattutto, italiano. La serialità americana eccelle non nonostante gli ambiti di fattura tecnica (colonna sonora, scenografia, fotografia, recitazione), ma grazie a tali ambiti. Nei confronti di tutti gli aspetti tecnico-professionali di una serie bisogna avere un’attenzione maniacale. La colonna sonora è essenziale nella capacità di definizione dei momenti, se si eccede con essa, coprendo la recitazione, allora diventa una melassa sonora. E in questa serie l’uso del sonoro ha molto i tratti della sovrabbondanza.

C’è poi un’evidente questione di recitazione. Eccezion fatta per John Turturro che riesce tenere a elaborare uno spettro espressivo specifico, il resto sembra davvero un manipolo di attori condannati alla staticità, il più delle volte, al manierismo retorico nei momenti peggiori. La sequenza dolciniana con Alessio Boni, Greta Scarano e Fabrizio Bentivoglio andrebbe fatta vedere per comprendere come un’esterna non andrebbe fatta. Piani stretti. Artefazione nei movimenti, poca credibilità nei dialoghi, distanza emotiva dei protagonisti.

Ultima, e forse la mancanza più sorprendente, è la piattezza della resa visiva. C’è una scenografia che ripete in maniera pedissequa il film, perdendo però quella dimensione di realismo che aveva negli anni ottanta. E c’è una fotografia stranamente patinata che regala al fredda violenza delle mura dell’abbazia un tratto di distanza, di tacitazione vitale che davvero rimane incomprensibile.

Ecco, il difetto tecnico che accomuna tutti i piani è un dilagante manierismo, un’attenzione estrinseca alla forma, alla correttezza esterna delle maestranze, perdendo ogni spirito espressivo che è demandato a esse.

Concettuale – L’operazione di Eco, al tempo, è stata una grande intuizione pop che, con il parallelo di Steven Spielberg e il suo Indiana Jones, apre il decennio della cultura popolare. Se il regista californiano rappresenta il lato avventuroso e industriale, il filosofo piemontese incarna il lato riflessivo e continentale di quella cultura di massa che si afferma in maniera definitiva come paradigma della cultura stessa, superando nei fatti ogni differenziazione tra cultura alta e bassa. Il nome della rosa è infatti un libro ricco di un’infinità di riferimenti di un’erudizione inconcepibile per chiunque, tranne Eco appunto. E, tuttavia, un libro di successo (enorme) di vendite. Quel disseminare conoscitivo diventa dunque qualcosa alla portata di tutti, diventa un patrimonio prossimo nel quale tutti, eruditi e non, sono chiamati a costruire il nuovo immaginario della modernità. Il film, nella diversità dei generi, tiene fede a questa visione generale, riuscendo a mantenere una veracità visiva, nonostante la ricercatezza narrativa.

La serie si perde ancor prima di cominciare. Il massimo che si riesce a pensare è un’operazione di attualizzazione, come si fa appunto con un classico della tradizione (Il nome della rosa libro e film). In tal rendere presente si realizza per paradosso un processo di regressione concettuale che la dice lunga sui tempi confusi che si stanno vivendo. Emerge infatti una strana difesa dell’idea di cultura libresca, fatta di personaggi eminenti, distante dalla vita, che dovrebbe servire da esempio alla stretta attualità. E si perde, proprio quando si è affermata in maniera completa con i social network, quell’idea ricca e polimorfa della cultura come qualcosa di commisto, di già sempre alto e basso insieme.

Si perde, soprattutto, la lezione di Eco che, all’inizio degli anni ottanta, ha rischiato una forma nuova, una narrazione filosofica di massa che sapesse essere produttiva per tutti, per il domani. Il nome della rosa seriale di oggi si rifugia in una monumentalizzazione della cultura, sterile e vacua, che dimostra come, nella difficoltà di gestire la novità dell’era digitale, la scelta più facile sia quella di ritirarsi verso una (artefatta) semplificazione della cultura come dimensione d’eccellenza antropologica.

 

Credit foto: Pagina Facebook Rai 1

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