Il video di Faccio quello che voglio di Fabio Rovazzi, un vero e proprio cortometraggio di nove minuti per quindici milioni di visualizzazioni su YouTube (per ora), inizia con una denuncia emblematica: «Ultimamente non ho più idee. Zero proprio!». Confessione fatta all’ormai amico Gianni Morandi (già protagonista dello scorso tormentone estivo, Volare) durante una battuta di pesca in cui «non abbocca niente». Questo elemento non è da sottovalutare: il vuoto che caratterizza il genio di Rovazzi è infatti esemplificabile proprio tramite la figura del pescatore: amo – esca – attesa, nel senso della passività. Non c’è un attivo imporre il proprio Sé pieno, non c’è azione informata da talento. Anzi, il problema è proprio che il talento non c’è. E ci si dovrebbe chiedere se, ad oggi, sia necessario averne uno.

La pesca è metafora del marketing, e Rovazzi lo ha imparato alla perfezione dai migliori in Italia, i suoi ex-collaboratori J-Ax e Fedez. Ma la questione è più complessa: non si tratta (solo) di far abboccare quanti più ascoltatori con ritmi, immagini e suoni ruffiani. Il punto è che anzi non abbocca proprio niente. Nello specifico, nessuna idea. Una tale mancanza non è un vuoto stantio, non è semplice inettitudine o la vuotezza metaforica di un pallone gonfio d’aria. Il vuoto d’idee di Rovazzi è quello necessario, in quest’epoca, ad ogni rimediazione. In questo senso la passività cui si accennava è quella di una forma pura, sussistente al di là di ogni contenuto e che per questo può ‘ospitarli’ tutti, riconfigurandoli. Il caos pomposo fatto di riferimenti, citazioni, marchette, ospitate imprevedibili è solo in apparenza un’operazione commerciale. Dietro nasconde una profonda comprensione del reale, che prende le mosse proprio dall’assenza di idee, di contenuti significativi.

Nel video di Faccio quello che voglio, Rovazzi riduce l’immagine, il volto, ad una pillola, fa del talento (canoro), delle capacità innate, una bevanda. Dell’accessibilità, della perfetta fagocitabilità dell’immagine simbolica se n’era già parlato. L’elemento nuovo che emerge qui è invece la totale liquefazione del talento. Il talento perde cioè la sua connotazione coriacea, sostanziale, quella che aveva mediato dalla tradizione cristiana. Non è più dono di Dio (o della natura) ma torna ad essere qualcosa di separato e autonomo rispetto all’individualità talentuosa, diventa addirittura bevibile. Questa sorta di secolarizzazione del pane (la pasticca) e del vino (da rosso sangue ad azzurro fluo) corrisponde proprio a quella rimediazione in grado di completare la baumaniana società liquida, in cui il talento faceva problema in quanto ancora espressione identificativa forte. Rovazzi lo liquefa e si trasforma in Diletta Leotta che canta sul mare, al tramonto, con la voce di Nek.

La riflessione che parte da questa normalizzazione del talento conduce alla conclusione per cui nella società rovazziana, quella senza idee, avere talento è insieme obbligatorio e non necessario. Nell’epoca benjaminiana della riproducibilità tecnica, le capacità vivono nella loro separata disponibilità, sempre a portata di mano: del resto, il caveau ‘segreto’ è sempre aperto (il guardiano è Massimo Boldi, la password è “1234” e per il riconoscimento facciale basta una foto di Pippo Baudo).

Il genio vuoto di Rovazzi è dunque rappresentativo del modo di concepire la libertà oggi, una libertà che è totale accessibilità («Faccio quello che voglio, faccio quello che mi va»), del superamento completo dell’esigenza di contenuti da veicolare, di significati e di idee («E del testo tanto non ne ho bisogno») e dell’esser necessario e sufficiente di un talento non più qualificante (in questo senso “obbligatorio ma non necessario”), non più personale e personificante. La completa sostituibilità è la grande scoperta di Rovazzi: la qualità non è scomparsa, è solo frammentata, soggetta a continue riconfigurazioni e ricombinazioni, è liquida, come il resto della società. Di fronte all’inutilità, l’inessenzialità e l’impossibilità delle idee, l’unica strada percorribile è quella del prendersi beffe di tutto ciò che pretendeva d’essere unico e inimitabile, stabile e inscalfibile, come ad esempio il talento e il volto di un cantante. Non più la logica del testo, solo il fluire della voce: «Perché con questa voce qua… pa pa parara». Il giullare Fabio Rovazzi è insomma il prodotto e il volano dell’immaginario collettivo, al pari di pochi altri artisti in Italia. Piace a chiunque, e questo perché il suo genio è completamente trasparente, privo di ogni specificità, vuoto. E lui lo sa perfettamente.


 

Lorenzo Di Maria, molisano, è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

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