La casa di carta, cui titolo originale è Casa de papel, è la serie non in lingua inglese più vista della storia su Netflix.
Al solo sentire “produzione spagnola” si storce un po’ il naso e le immagini di Paso adelante – nel migliore dei casi – o de Il segreto – nel peggiore – si materializzano immediatamente di fronte ai nostri occhi. Tuttavia, ogni pregiudizio che si rispetti porta con sé la propria smentita e, in questo caso, indossa la maschera di Dalì.

Il plot
Otto rapinatori, guidati da una mente criminale, attaccano la zecca di Stato a Madrid, barricandosi all’interno con diverse decine di ostaggi. Questo accade nella prima puntata della prima stagione; il resto è invece una partita scacchi.

L’attesa e l’entusiasmo del pubblico, nonché gli investimenti pubblicitari di Netflix, che hanno preceduto la recente uscita della seconda stagione – il 6 aprile scorso – testimoniano come questa serie, americana nello spirito ma spagnola nel piglio narrativo e sentimentale dei suoi personaggi, sia divenuta ormai un cult.

La narrazione è il suo successo
A determinare il successo di questa serie come prodotto a largo consumo è l’impostazione narrativa: un po’ Inside Man, un po’ Le Iene di Tarantino, La casa di carta ha portato l’idea vincente dell’heist movie in chiave di serie TV, riuscendo, attraverso la costruzione di più piani del racconto, a mantenere sempre alta la tensione e l’interesse del pubblico. La macro-narrazione è, ovviamente, la rapina; la cui temporalità è scandita episodio dopo episodio dallo scorrere delle ore, dall’aumentare dei soldi stampati e dal realizzarsi del piano del Professore, i cui assi nella manica sono svelati progressivamente nel corso delle puntate. A questo piano si aggiungono le story e le side story collegate al colpo – ogni rapinatore ha una sua motivazione ben precisa per portare a termine la rapina – che, ad uno sguardo complessivo, risultano come una scontata ma funzionale commistione di vari elementi (il rapporto padre-figlio, la storia d’amore, la ragazza-madre, la malattia, l’aborto).

Una scrittura efficace, anche se un po’ di maniera, genera dunque un ritmo di azione serrato che, unito all’ottima scelta del cast, tiene lo spettatore incollato allo schermo.

L’ontologia dietro la narrazione
Tuttavia, la struttura teorica sembra eccedere questa impostazione narrativa che fa del ritmo senza sosta l’elemento centrale. Dietro le tute rosse, le maschere di Dalì, le sparatorie e i continui ribaltamenti si sta giocando in realtà una partita a scacchi tra due elementi opposti: il Bene e il Male, e il tempo della narrazione non è altro che il tempo impiegato dai giocatori per compiere le proprie mosse.

Esattamente come nella visione manichea, il reale all’interno de La casa di carta è determinato dallo scontro di due principi: la Luce e le Tenebre, coevi, indipendenti e contrapposti che influiscono in ogni aspetto dell’esistenza e della condotta umana.

Chi sono i buoni e chi i cattivi? L’ispettore Raquel Murillo confesserà apertamente di non riuscire più a distinguerli.

Tutta la narrazione, di forte stampo dualistico, è allora tesa a determinare i confini di scontro di questi due principi, perché alla decostruzione iniziale della classica coppia degli opposti (Polizia = Bene, Ladri = Male) deve seguire necessariamente la costruzione di una nuova equazione ontologica (Ladri =Bene, Polizia = Male).

E come i manichei per essere virtuosi dovevano attenersi alle rigide regole morali imposte da Mani, allo stesso modo nella Casa di carta bisogna rigidamente attenersi al piano del Professore.


 

Nicole Paglia è laureata in Filosofia e lavora per L’orma Editore. Ha scritto su riviste di filosofia e attualità e pubblicato un saggio intitolato «L’altro volto del Mediterraneo», sulla necessità di un ripensamento cristiano dell’idea di Europa.

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