Il ruolo dell’F.C. Internazionale nella storia del calcio è sempre stato unico nel suo genere. Una squadra che viene contemplata tra le “grandi” d’Italia per le sue vittorie e la sua storia, e che pur avendo nel suo destino vittorie e trofei, riesce quasi sempre a cadere in modo assurdo e mai banale, regalando periodi di buio totale come pure intensi momenti di gloria ai suoi tifosi, al punto da aver suggerito nel tempo numerosi spunti di riflessione. Scorrendo infatti la bibliografia dedicata alla Beneamata notiamo come il denominatore comune sia non tanto la narrazione delle vittorie centrate o mancate, quanto la diversità della passione interista rispetto a quella delle altre squadre, e di come l’elemento che scatena l’amore incondizionato da parte dei suoi tifosi non siano i risultati, ma il percorso della squadra così imprevedibile da essersi ormai identificata in un termine divenuto parte integrante dell’inno ufficiale, ovvero “pazza”.

Una follia che si è declinata in una vastissima serie di analisi e ragionamenti su carta, ma anche attraverso una letteratura mediatica che ha investito i social media e la rete. E se lo stesso Inter Media House gioca con i generi e con la follia attraverso i video di presentazione dei vari atleti arrivati in estate, Facebook ribolle di pagine che mettono in mostra il variegato tifo interista.

Queste forme di tifo non convenzionali non si limitano al racconto e al commento delle vicende societarie e sportive, delle varie polemiche o del calciomercato estivo. Tali pagine partono da un presupposto diverso, una prospettiva originale attraverso cui inquadrare l’interismo e tradurlo in una corrente di pensiero o un modo di vivere e stare al mondo. Pagine come “Interisti Stalinisti”, per cui “interismo” è resistenza partigiana e internazionalismo comunista, o pagine più prettamente filosofiche come “Interisti Esistenzialisti”, per cui essere interista sarebbe lo specchio del disagio esistenziale che caratterizza, individualmente e collettivamente, la contemporaneità.

Abbiamo raggiunto Fabio, il creatore della pagina Facebook per riflettere su un fenomeno, che sta diventando un vero e proprio successo di seguito e numeri.

La prima domanda che viene in mente non appena ci si imbatte in questa pagina è chi sia stato così “pazzo” da essere riuscito a connettere interismo e filosofia in modo tanto efficace, per di più attraverso un medium come Facebook che per la sua natura fortemente effimera, trasforma la speculazione esistenzialista in meta-esistenzialismo. Come è nata l’idea?

Fabio: L’idea è nata nella banalità dello scherzo, di una riflessione giocosa che accostava interismo ed esistenzialismo per via dei caratteri fondamentali e comuni di entrambe le “filosofie” di vita. Ed è nata tramite due persone, di cui una soltanto ha portato avanti il progetto – che resta tutt’oggi un divertissement nonostante quello che voi definite un successo, ma che un vero esistenzialista non può che definire “effimera gloria umana”! La pagina Facebook è venuta da sé: oggi, ormai, non c’è più la possibilità di distinguere profondamente tra un mondo della vita (quello che Husserl chiamava Lebensvelt) ed un mondo virtuale; essi ormai coincidono, per cui l’accostamento è venuto da sé: diamo voce a questo modo ironico, ma culturale, di trattare l’Inter, tramite la potenza dei social, e vediamo un po’ che succede.

Esistenzialismo vuol dire tante cose, complice il fatto che non si tratta di una vera e propria scuola di pensiero ma piuttosto di un clima culturale e filosofico, di cui sono riconoscibili tratti generali e padri spirituali. Tra questi un ruolo fondamentale è ricoperto senz’altro da Schopenhauer e dal suo celeberrimo pendolo che oscilla tra noia e dolore con brevissimi attimi di gioia. Angoscia, rassegnazione, nostalgia, sofferenza e brevi momenti di gloria. È questo il tessuto narrativo della pagina?

Fabio: Più che il tessuto narrativo della pagina, guardiamoci in faccia ed ammettiamolo: è il tessuto narrativo della storia dell’Inter e di noi tifosi, sempre sospesi tra la gloria più alta ed il baratro più profondo, sempre lì in attesa di una impresa, ma condannati ad una umiliazione. Sono convinto che se l’Inter fosse esistita già ai tempi di Schopenhauer, ne avrebbe fatto almeno un riferimento in nota ne Il mondo come volontà e rappresentazione. Ma, l’interismo non è così vicino ad un approccio alla Schopenhauer, quanto più ad uno alla Sartre, che in punto di morte ha dichiarato, in fondo, di non aver mai passato un giorno di disperazione. Noi interisti, alla fin fine, siamo così: seppur disperati, lo siamo con orgoglio, e molte volte riusciamo a far scivolare via tutto grazie alle grandi imprese a cui la nostra storia ci ha abituato, o per il semplice fatto che in fondo ci vuole poco per renderci felici.

Altro carattere fondamentale dell’esistenzialismo filosofico è la considerazione dell’esistenza come non essere e dunque come costante tensione in cui si apre il ventaglio delle infinite possibilità d’essere. Si può ripensare nell’ottica della trasvalutazione valoriale di Nietzsche, e dunque del superamento di ogni razionalità a vantaggio dell’assoluta indeterminazione, la “pazzia” come carattere distintivo della storia dell’Inter?

Fabio: Sì, senza dubbio è una lettura che ci può stare a pennello. Nutriamo noi stessi di questa follia, spesso umorale. Ma l’interista non è altro che l’uomo folle nietzscheano che ha scorto tra le trame della vita e del reale la “vera” verità: la contingenza, il carattere storico dei valori, il mutamento costante del divenire, l’eterno ritorno dell’uguale (disperato nel nostro caso) e soprattutto che Dio (no, non mi riferisco a José Mourinho) è morto ed è stato sostituito da idoli, e al contempo da una perdita dei grandi valori, di quelle grandi narrazioni di cui parlava Lyotard, che, per lo meno nel nostro caso, di tanto in tanto tornano. Vedete, ad esempio, “La grande Inter” di Herrera e quella del Triplete. Noi, rassegnati, e folli in un amore incondizionato anche quando non ne sarebbe il caso, sappiamo che l’eterno ritorno anche del trionfo verrà prima o poi a bussarci ancora, e che soprattutto, l’ultima parola non è mai ancora stata detta.


L’intervista è nata dalla collaborazione di Lorenzo Di Maria e Riccardo Minnucci.


 

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