Le ultime due settimane, hanno visto la Sardegna teatro della protesta dei pastori. Questa speciale categoria di lavoratori non è nuova alle mobilitazioni, già nel 2018 vi fu la riconsegna di oltre duemila tessere elettorali, oggetto della protesta: la mancanza di una politica economica consona alle necessità del territorio e del settore produttivo che ne rappresenta la più eminente espressione, la pastorizia, declinata ormai in ottica imprenditoriale. Proprio questa declinazione potrà servire da guida, illustrando il tratto di reale che queste persone rivendicano con forza.

Elemento cardine della concezione imprenditoriale del lavoro è l’autonomia del singolo lavoratore. Il pastore imprenditore è immerso in un tessuto produttivo di suoi pari, altri pastori, aziende dedite alla trasformazione del prodotto, grande distribuzione, fornitori di mangimi ecc. Andando oltre i rilievi socioeconomici possibili, emerge come il contrasto della frammentazione sia un tratto più volte ripreso all’interno della protesta.

“All’unanimità abbiamo deciso di andare avanti. Questo vuol dire che i pastori non li divide nessuno”

“Non entrerà nessuno a votare: non è che non andiamo a votare, non voterà nessuno, blocchiamo la democrazia, ognuno si assuma le proprie responsabilità”

La vicenda si è ovviamente da subito legata con la questione politica (domani si terranno le elezioni regionali), ottenendo diversi effetti. Da un lato la proposta di scioglimento del Consorzio di tutela del Pecorino Romano Dop, dall’altra, la manifestazione tenutasi a Roma il 9 febbraio, ha visto le sigle Cgil, Cisl e Uil di nuovo insieme, cosa che non succedeva dal 2013 per questioni legate a queste tematiche.

Non sorprende che quello dell’identità (dell’unità) sia il leitmotiv di questa storia. Dimenticando per un attimo la Sardegna del Billionaire, di Briatore (che comunque ha dato il suo supporto alla mobilitazione) e delle cartoline, resta il dato importante che quasi il 50% del patrimonio ovino italiano si trova in Sardegna e che il 47% della superficie dell’isola è sfruttata per pascoli e agricoltura. La tradizione (qui per davvero) millenaria di queste terre, vede nell’allevamento ovino e caprino, non solo una fonte di sostentamento, ma anche una delle forme della propria cultura.

Da questo punto di vista, il gesto di protesta estremo, ancora più eclatante dei presidi ai caseifici e dei posti di blocco per impedire il passaggio dei tir, lo sversamento del latte, non è che il compimento di quello che potremmo definire un processo di individuazione culturale.

Già il termine “sversamento” introduce una dimensione del rifiuto, dello scarto. Quella che dovrebbe essere materia prima, eminentemente fertile, aperta alla trasformazione, diviene, ancor prima di essere immessa nella filiera produttiva, prodotto di scarto. In un sistema che non riconosce il plusvalore del lavoro svolto, questo dev’essere spettacolarmente consumato, secondo una logica della sublimazione del valore. Un modo di operare che vede nell’annichilimento di una pulsione, l’unica via al suo soddisfacimento. Al riconoscimento negato ai pastori, produttivo e culturale, allo svilimento del loro prodotto, viene a corrispondere una riappropriazione violenta della propria identità, di fatto i pastori dispongono del latte, del coagulo della loro fatica, fino a potersene liberare, dispensandosene.

Tutto ciò ha ovviamente un prezzo, ben superiore all’euro previsto dall’ultima proposta di accordo fra le parti. La forma, sebbene mediaticamente accattivante, di martirio cui gli individui sono andati incontro, svuota le istanze culturali di quella sacralità che le rivestiva. Un miscelatore con mille litri di latte diventa la vasca da bagno di una modella famosa, il latte lava le strade e i pastori si trasformano in agenti di dogana e briganti. Le contingenze di oggi succhiano via l’identità storica di quelle terre, lasciandole aride e assetate, creando un vuoto difficile da riempire per via istituzionale.

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