Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher condivide con Dogman di Matteo Garrone molto più che l’essere stato premiato al Festival di Cannes. I film dei due registi italiani, tramite due coppie di personaggi marginali ed estremi, sono entrambi dedicati all’inafferrabilità di ciò che è propriamente umano. Se Marcello e Simone rappresentano diverse forme dell’animalità, così Lazzaro e Tancredi sono due rappresentazioni opposte della bontà santa, un San Francesco ed un Don Chisciotte reinterpretati dalla cineasta toscana. Che si guardi troppo in basso o troppo in alto, in entrambi i film l’umano appare solo in negativo, come ciò che è fuori dall’inquadratura.

Lazzaro, la stupidità divina: la santità si rivela in quanto mostra nel mondo delle logiche altre, estranee alla normalità. Lazzaro è un santo per sottrazione, in quanto ha il dono di togliere ogni complessità al rapporto tra l’uomo e il mondo, tra le parole e le cose. Si tratta della santità dell’immediatezza e dunque dell’aderenza senza riserve all’esterno. Per Lazzaro le cose sono semplicemente quelle che sono, non hanno alcuno spessore oltre la loro apparenza. Il linguaggio si limita a indicarle e a offrirle, senza distanziarcene in alcun modo. Allo stesso modo le persone non sono che cose esprimenti bisogni e Lazzaro, in virtù della sua prossimità, accoglie e risponde ad ognuno di questi bisogni. Egli sposta il tabacco ed i mobili così come sposta la nonna.

Nel mondo di Lazzaro non c’è spazio per la distanza, per la riflessione, per l’ironia. Tutto lo riguarda letteralmente. Questo mondo monodimensionale in cui tutto si corrisponde immediatamente è stupido quanto solido. I suoi simboli sono la roccia e la terra che si avvertono così potenti ed immote nella prima parte del film. Per Lazzaro il cambiamento è impensabile ed impossibile: egli muore durante il passaggio degli altri personaggi dalla campagna alla città, scompare per vent’anni e dunque resuscita identico a prima. La sua è una santità primordiale, edenica, eterna: egli è felice perché non conosce il dolore della separazione dalle cose. Non conosce la possibilità stessa dell’inganno e della menzogna.

Tancredi, l’immaginazione dell’altrove: al contrario, Tancredi è un santo per addizione. Egli conosce il mondo in tutto il suo spessore, ha appreso la poliedricità e la mutevolezza delle cose, nonché la doppiezza delle azioni degli uomini. Egli si sa come singolo e separato. Soffre e sceglie come via di liberazione la definitiva fuga: se le parole e il mondo si corrispondono in modi molteplici e sfaccettati, perché non fare della propria volontà il criterio di questa corrispondenza? Tancredi non è mai dove è, scappa da ogni luogo non fisicamente, ma tramite una trasfigurazione fantastica della realtà. Per lui tutto può essere tutto, una fionda può diventare l’arma di un cavaliere e un bracciante idiota un “mezzo fratello”.

L’arte di Tancredi è l’(auto)inganno, i suoi simboli sono svariati e vanno dal fumo delle sigarette all’intrecciarsi caotico dei binari nel paesaggio urbano, fino al minuscolo cane chiamato Ercole. La sua santità consiste nel delirio, nel cambiamento sfrenato: non è un caso se sia lui il personaggio a trasformarsi più vistosamente dal punto di vista fisico nel passaggio dalla prima alla seconda parte del film. Se la bontà di Lazzaro era nello stare presso le cose, quella di Tancredi si esprime nel loro rifiuto, nel tentativo di affermare sé stesso oltre le cose e indipendentemente dagli altri.

Tra accettazione immediata del mondo o sua illimitata riconfigurazione fantastica, Lazzaro Felice mostra due modi estremi, impraticabili e parimenti impotenti della bontà: il loro incontrarsi non potrà che risolversi tragicamente.


 

Andrea Ferretti è laureato in filosofia con una tesi sul Senso Comune nel pensiero di G. B. Vico. È appassionato di calcio, folklori contemporanei e giochi di ruolo.

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