Lorenzo Di Maria qualche tempo fa su Popmag si è occupato del biopic attualmente nelle sale dedicato alla storia di Freddy Mercury e dei Queen, ovvero Bohemian Rhapsody (link all'articolo). Sulla mediocrità del prodotto, tanto dal punto di vista narrativo quanto da quello stilistico (complice la tormentata lavorazione e i continui cambi per la regia), e soprattutto sulla tendenza “retromaniaca” che assilla la nostra contemporaneità, con lo sguardo perennemente rivolto a miti e personaggi del passato che incrementano il senso di struggente malinconia, già è stato detto. In questa occasione intendo invece soffermarmi su un “dettaglio” specifico del film, che diventa incandescente nel finale in rapporto allo spirito e all’ispirazione complessiva della sceneggiatura. Bohemian Rhapsody da un certo punto di vista è un biopic “classico", tradizionale, e per queste ragioni in controtendenza rispetto ai biopic più recenti: il biopic classico si prende ampie licenze e punta alla trasfigurazione romanzesca di fatti, personaggi, eventi per rendere tutto più accattivante, per potenziare per esempio l’aura leggendaria dei protagonisti. Molti biopic contemporanei invece preferiscono “asciugarsi”, per recuperare l’aura di fascino in maniera dialettica: mettono in mostra la “realtà cruda” senza fronzoli per ricondurre la leggenda alla sua natura terrestre, magari evidenziando pecche e limiti di natura morale. In Bohemian Rhapsody gli anacronismi sono imbarazzanti, così come le imperfezioni di scrittura e le omissioni: ora, non è necessaria la fedeltà pedissequa quando si realizza un film del genere – sappiate che però questa non è né la storia di Freddy Mercury né tanto meno quella dei Queen –, perché il prodotto può riscattarsi in quanto omaggio sentimentale nei confronti di una delle più grandi icone della storia del rock.

Il problema si complica quando nel finale arriva il Live Aid: evento massmediale tra i più celebrati e seguiti della storia, il Live Aid è stato oggetto di polemiche e attacchi provenuti da più fronti, soprattutto dalla stessa scena rock. Mark Fisher in Realismo Capitalista ha messo a fuoco la profonda ipocrisia del progetto di Bob Geldof, emblema di come il sistema economico-finanziario occidentale, neoliberista e globalizzato, si lavi la coscienza col beneplacito delle masse euforiche attraverso una proposta che resta ben ancorata alle basi produttive ed economiche che sono la causa delle maggiori catastrofi ambientali e umanitarie. Senza intaccare le fondamenta sistemiche ma anzi reiterandole, il Live Aid è il modo in cui il capitalismo globale perpetua la sua logica di sfruttamento; non è un caso che alcune delle più grandi multinazionali fecero a gara per diventare lo sponsor dell’evento seguito da circa un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo.

Tra queste multinazionali c’era la Pepsi, una delle più argute in merito di dialettica di cinismo promozionale e impegno sociale: il logo della Pepsi svettava nelle varie location, come sponsor ufficiale del concerto plurale (simbolo di globalizzazione per eccellenza: vari punti del mondo, una causa comune ma anche uno sponsor comune). Il finale del film è dedicato proprio all’indimenticabile performance della band al Live Aid; quando Freddy è al pianoforte, in primo piano ben inquadrato c'è il logo della Pepsi, esattamente come nell’originale video del 1985. D’altronde, Rami Malek per tutta la parte live del concerto compie gli stessi gesti e movimenti di Freddy Mercury, in una interessante pratica di ripetizione dell’originale. E qui scatta la contraddizione che mette in evidenza la cattiva coscienza dell’immaginario capitalistico-multinazionale: se il film voleva compiere un’operazione esteticamente e concettualmente sofisticata di ricostruzione maniacale e pedissequa, come una sorta di raddoppiamento in grado di risemantizzare le immagini, allora la Pepsi sarebbe potuta essere niente di più che un oggetto scenografico svuotato di intenzionalità promozionale e commerciale; ma se la fedeltà come abbiamo detto era stata sacrificata per due ore di film per l’esaltazione elegiaca del mito, allora la Pepsi non è un mero oggetto di arredo ma diventa una precisa intenzionalità commerciale rilanciata ed “elevata alla seconda” rispetto al 1985 (necessario segnalare la commercializzazione in America Latina e in Asia delle lattine Pepsi "Edizione Limitata Bohemian Rhapsody" in occasione dell'uscita del film). Ciò che ci tiene ancorati al passato è infatti l’immaginario del logo multinazionale, che incrementa la sua attrazione nel presente facendo leva sull’evento leggendario. Ciò che deve restare autentico, reale, genuino e "fedele" nel grande "museo immaginario" sono solo gli elementi innocui e non offensivi della stravaganza visionaria dei Queen, e in nome di tale presunta fedeltà (che è in realtà estremamente "infedele" nei confronti della vicenda Mercury-Queen) il brand della Pepsi deve continuare a fare capolino. Cattiva coscienza e struggimento nostalgico stringono il cerchio attorno al brand: così la Pepsi non è che la messa in chiaro del funzionamento del brand Mercury-Queen delle oltre due ore di film, realizzate come un lungo spot promozionale.

Alessandro Alfieri è saggista e critico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa di estetica dell’audiovisivo e cultura di massa. Tra le sue pubblicazioni Il cinismo dei media, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino e Lady Gaga. La seduzione del mostro.

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