L’edizione del Festival di Sanremo si è conclusa, come da copione, con polemiche (motivate? pretestuose? sensate?) riguardanti il risultato finale. Come la sceneggiatura di uno scarso film che ritiene di essere bello prevede. Si è gridato spesso, anche qui più per copione di posa culturale, al miracolo testuale di varie canzoni per la profondità dei temi toccati e per la purezza dell’intenzione. È passata invece quasi del tutto in silenzio una canzone, un po’ per il poco appeal intellettualistico dell’interprete, un po’ per le non eccellenti esibizioni durante la gara (si è saputo successivamente delle non perfette condizioni di salute che hanno complicato non poco l’esecuzione di una canzone già molto sfidante a livello vocale). C’è quindi forse da fare una sosta e soffermarsi sul caso Arisa e sulla sua Mi sento bene. Si tratta, a ben vedere, di un caso molto particolare che soprattutto a livello di visione merita attenzione.

Cogli l’attimo – A prima vista l’ambito ideologico di riferimento nel quale si muove è quello dell’epicureismo storico. I riferimenti possono essere numerosi. Due su tutti offrono il quadro al meglio: l’oraziano Carpe diem (“cogli l’attimo”) e il laurenziano Chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza. Quest’atmosfera di necessità di concentrazione sul momento si ritrova in vari passaggi della canzone. Nel ritornello in maniera più netta:

E prendo la mia vita come viene
Se non ci penso più mi sento bene

Ma non solo. È nella stessa semplicità delle azioni. Le più quotidiane, le più usuali, le più banali:

Guardo una serie alla tv e mi sento bene
Leggo un giornale, mi sdraio al mare

E prendo la mia vita come viene

Oppure:

Se sto al telefono con te mi sento bene
I baci in corsa, le calze a rete
Gli inviti a cena per fare l’amore

Entropia esistenziale – Fin qui verrebbe da dire, tutto nella norma. È la classica canzone di evasione e leggerezza sanremese. C’è però subito un campanello d’allarme a suonare ed l’apertura stessa di questa presunta gioiosa liberazione dell’attimo fuggente:

Credere all’eternità è difficile
Basta non pensarci più e vivere
E chiedersi che senso ha? È inutile

La presa di posizione nichilistica e antiteistica è netta e senza possibilità di sottrazione. L’eternità è uno spettro rappresentativo distante dalla vita. Chiedere il senso di quest’ultima è addirittura inutile. Non c’è quindi alcun paracadute metafisico o alcuna possibilità di collocazione che giustifichi alcuna forma di credenza che ecceda la semplicità del vivere.

La vita stessa non basta, perché essa pure è destinata a una inevitabile sconfitta:

Dei pomeriggi al fiume da bambina
Degli occhi di mia madre
Quando questo tempo finirà?

La creazione di senso è vittima di se stessa in una sorta di dispersione entropica. Ogni esperienza, ogni vissuto che ha creato senso è un’apparizione disparente. Una scintilla che disperde energia, essendo. Non rimane nulla, proprio perché accade. La consolazione epicurea dell’attimo come godimento è inficiata alla radice stessa del suo concepirsi.

Epicureismo triste – C’è come un velo di tristezza insormontabile che aleggia sul reale. E il gioco dialettico con il ritmo veloce e il personaggio quasi favolistico costruito da Arisa (che infatti nel video della canzone si muove in un mondo fiabesco e ha le fattezze da cartone animato) è una costruzione per via negativa che permette una maggiore penetrazione del messaggio.

La felicità è al di là del concepibile. È superata rispetto a ogni possibilità, non solo di realizzazione, ma anche d’esistenza nell’orizzonte vitale. C’è un sereno accontentarsi che non si fonda tanto nell’azione, quanto nell’atteggiamento. È il “mi fa stare bene” la chiave. La rinuncia all’oggettività è compiuta. La vita personale è limitata a un recinto soggettivo dove il massimo è il “non stare male”. Si colora così di una strana sfumatura stoica questa elegia dell’attimo. Si vive nel presente, perché non si può vivere lontano da esso. Si gode nell’azione semplice, perché uscendo da questo limite si entra nell’oceano dell’insensatezza, navigando il quale il rischio di inabissarsi nel dolore è assicurato.

Il controsenso dell’umano – Per arrivare a questa condizione di benessere è necessario uno preciso sforzo di pensiero:

Se non ci penso più mi sento bene

Oppure

E più non penso e più mi sento bene
E non pensare più a cosa dire

Si mostra qui un cortocircuito della stessa condizione umana: il pensiero è lo strumento di evoluzione e distintivo dell’essere umano che lo porta a interrogarsi sul proprio destino. E lo conduce alla scoperta della sua stessa insensatezza. Il pensiero, allo stesso tempo, nella sua massima condizione di consapevolezza è lo strumento che arriva a tematizzare la (auto)rinuncia per garantire a chi lo possiede e lo esercita uno stato di simil-benessere.

Pensare per non pensare: questa è la ricetta di Arisa per stare bene. Un epicureismo triste, quasi esistenzialistico, nichilista nel senso del pessimismo cosmico della tradizione leopardiana. Di certo qualcosa che eccede la vulgata sanremese condannata in maniera preconcetta all’accoppiata rassicurante cuore-amore.

Credit foto: Pagina Facebook Arisa

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