Tra gli strombazzamenti di automobilisti inferociti e tram bloccati, avanza una ragazza. Normalissima ragazza, del tutto anonima: bellezza media, altezza media, fisicità media. Una qualunque. Nessuno sapeva chi fosse, nessuno poteva prevedere il suo gesto. Camicetta bianco sporco, occhiali da sole “a punta”, pantalone rosa confetto, scarpe nere con un po’ di tacco. D’improvviso, fa un passo avanti, si mette a centro strada, assume una posa “da rivista di moda”. Resta lì tre o quattro secondi. Poi, decine e decine di fotografi si girano, la notano e iniziano a scattarle centinaia di foto. Poco dopo l’attenzione viene attirata dall’arrivo di un’altra ragazza, in tuta e con in testa una maschera da unicorno. Così, senza motivo. Carnevale? No, più semplicemente la Milano Fashion Week. Si tratta, infatti, delle più tipiche esperienze tra quelle che è possibile vivere davanti alle tante locations della famosa rassegna internazionale di moda, caduta quest’anno tra il 19 e il 25 febbraio.

Non si fraintenda. Non ci sono solo carnevalate e momenti imbarazzanti, anzi. L’alta moda è presente, sopraggiunge e irrompe con prepotenza, si lascia rapidamente fotografare all’ingresso e poi scappa oltre invalicabili cancelli. Le sfilate delle collezioni dei grandi marchi della moda italiana sono infatti chiuse al grande pubblico. Non c’è quindi dimensione popolare, democratica. Quest’ultimo, il popolo, viene a conoscenza di quello che gli dovrà piacere solo attraverso la mediazione di giornalisti e fotografi di tv, riviste e webzine. Solo cioè per il tramite degli unici “invitati”, ossia gli addetti ai lavori, gli esperti. All’esterno, davanti ai cancelli, restano curiosi di ogni tipo, aspiranti fotografi di moda, aspiranti modelle, appassionati ed esibizionisti. Il panorama è insomma variegato e variopinto ma non caotico. Si tratta anzi, forse, di uno degli ultimi mondi “ordinati”, uno degli ultimi “sistemi”, con tanto di ritualità.

Il fatto che le sfilate di alta moda non siano aperte al pubblico fa sì che la componente artistica lì esposta assuma un senso – per così dire – mistico. Oltre i cancelli invalicabili, risiede quella sacralità alla quale possono accedere solo “sacerdoti” ben attrezzati per ascoltare la voce della stile.  Ma se i giornalisti ne riportano al massimo la “lettera”, gli apostoli di questa sorta di divinità della creatività che sono gli stilisti sono i cosiddetti fashion buyers. Sono questi ad estrapolare dalla “lettera” lo “spirito”, e sono loro che, selezionando determinati capi d’abbigliamento all’interno della semplice giustapposizione creativa, riescono a rendere l’arte stilistica “moda”: così l’inascoltabile (o “inguardabile”) voce delle divinità stilistica viene tradotta per il popolo e resa apprezzabile, comunicabile, fruibile, infine acquistabile. I buyers infatti lavorano per gli showrooms, operano cioè predizioni di costume, traducendo l’asse dentro-fuori in quello presente-futuro.

Lungo lo stesso asse, ma con un malcelato investimento sul rapporto passato-presente, si muove invece un’altra categoria, quella delle influencers. Figure recenti, spesso invise ai giganti della tradizione, chiamate però dagli stessi brands di moda a rappresentarli nel mondo esterno, al popolo universale dei social, il più abituato a nutrirsi di immagini immediatamente rappresentative. Non testimoniano come i giornalisti, né interpretano e predicono come i buyers: si limitano a dare un’idea e lo fanno scegliendo abiti di vecchie collezioni, ma attualizzabili per il loro stratificato valore simbolico.  Qui si mostra il tratto interessante: non si tratta di “sacerdoti” del costume, si tratti viceversa di outsider che sono riusciti a elevare il loro “esser fuori” fino a renderlo accettato anche all’interno, con tanto di inviti ufficiali.

Una funzione di raccordo, legata – è chiaro – a ragioni puramente funzionali (cioè consumistiche), mai artistico-rituali. Per cui, Beatrice Valli (ex “corteggiatrice” di Uomini&Donne) con i suoi due milioni di followers è dentro (“in”). Paola Turani (ex modella, ora instagrammer) con quasi un milione: dentro. Le aspiranti influencers da cinquemila seguaci su Instagram? Fuori (“out”). Lo stile è una questione numerica, quantitativa.

E cosa accade quindi in questo “fuori” che si accalca davanti ai cancelli? in quella porzione di mondo esterno che si fa più prossima al sacrum della moda? Accade di ritrovarsi con una ragazza normalissima che occupa il centro-strada e si mette in posa, o con un’altra che distribuisce biglietti coi dati del suo account di Instagram mascherata da unicorno. Aspirazioni legittime ed esibizionismo trash, il tutto figlio del sottrarsi alla vista della produzione “divino-creativa”, di un’arte che difficilmente offre punti di riferimento, se non attraverso i suoi mediatori “ufficiali”, che si impone al pubblico senza concreteprospettive democratiche.

I tentativi dei singoli di elevarsi per scavalcare i cancelli, infatti, si risolvono in un mero ingigantimento del proprio “sé immaginativo”: la fantasia è lasciata libera di impegnarsi in un’imitazione imperfetta della creazione artistica (o di chi, più semplicemente, “ce l’ha fatta”). Imperfezione strutturale connessa ad un fraintendimento di fondo: l’errore sta nell’imitare la “lettera” dell’alta moda, atteggiarsi ad essa finendo inevitabilmente per generare una mimesi raffazzonata, senza accorgersi che è invece fondamentale essere “sacerdoti”, disporre cioè degli strumenti essenziali a comprenderne, di volta in volta, l’autentico “spirito”. E chissà se anche gli stessi “sacerdoti” siano davvero consapevoli del rito che, di volta in volta, sono chiamati a celebrare.

Credit photo:  iO Donna (copertina: particolare collezione primavera-estate 2019 Antonio Marras); ph. Francesca Perrotta (corpo del testo: l’influencer ed ex modella Paola Turani).

Lorenzo Di Maria, molisano, è laureato in Filosofia con una tesi triennale sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève, e una magistrale sulle trasformazioni della democrazia nell’epoca del digitale. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

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