Starbucks a Milano. Un American Dream che si realizza in casa per molti italiani che, oltre i confini nazionali di quella “tazza ‘e caffè” intonata da Roberto Murolo, lo rendono tappa irrinunciabile di ogni viaggio. Un’eresia per i partigiani di un rituale ostinatamente italiano. Forse un po’ impigrito dalla poetica del “Made in Italy”.

In fila per entrare alla Scala, in fila per entrare da Abercrombie & Fitch, da qualche giorno in fila per entrare da Starbucks. Eppure, incuranti del generale e consueto trambusto mediatico, e non solo del sonno, gli aspiranti pionieri della prima Starbucks Reserve Roastery, nonché flagship store più grande d’Europa, si approssimano a Piazza Cordusio per andare a compattarsi in una di quelle tante code umane che sembrano non sorprendere, o scomporre troppo, la capitale italiana della moda. Sono le quattro e trenta del 7 settembre 2018, è sabato, numerosi accorrono in occasione della prima apertura. Per avere il privilegio di degustare le varie miscele di caffè, o assaporare un espresso in una narrazione che non contestualizza più il bancone di un bar e le labbra che tremano d’un tratto a contatto con la tazzina bollente.

L’avvento della catena di caffè più famosa al mondo, con un plauso in grado di lasciare in piedi per ore “i turisti” di questo lembo di America, non esautora la tanto celebrata tradizione dell’espresso italiano, ma si inserisce in un filone che le corre parallelo e che perpendicolarmente si interseca con il rinnovamento. Così che non si debba più creare nulla. Basta ri-creare. L’abilità della trasformazione risiede, del resto, nell’acuta osservazione di un prodotto già dato, anche se inserito nel fascino delle sue origini e della sua storia, come il caffè espresso, per stravolgerne le regole e ricomporre un’unità che sia in grado di stupire. La scommessa di Starbucks a Milano si situa, infatti, nel restyling della sacra consuetudine italiana del caffè.

Il mito della cup to go con la iconica sirenetta verde, più “a stelle e strisce” che sinonimo di una epica grecità, a passeggio per le vie di New York, accanto alla frustrante presenza degli store della catena di caffè più importante al mondo sparsi per l’ Europa, meno che in Italia, alimenta un orizzonte di curiosità che si desta con il fascino della mancanza. La stessa che riempie il marciapiede e fa svoltare l’angolo, per centinaia di metri. Fino all’ultimo della fila, con lo scopo di entrare nello storico Palazzo delle Poste di Milano, dove si è insediato il primo Starbucks d’Italia, con religioso rispetto del glamour sin dal design del dehors.

Il vettore che impartisce la direzione è la dimensione teatrale. O, per così dire, la teatralità. Nella Roastery di Milano il caffè è il pretesto che dà avvio al cerimoniale della torrefazione a vista in tutte le sue fasi, per stupire il cliente che si prepara alla degustazione mentre si lascia cullare dall’aroma. E, forse, anche un po’ per evitare gli haters dei libidinosi dolci americani. Ma, soprattutto, per meravigliare lo stesso visitatore che ha atteso lungo l’estensione di qualche marciapiede alle spalle del Duomo. Aspettandosi esattamente ciò che gli verrà offerto: una sensazione di sorpresa, un’esperienza multisensoriale che sovverta per qualche minuto la contingenza o la noia di chi ricerca continui stimoli. Di certo, la misura di questo effetto resta ancora sconosciuta finchè si rimane paralizzati a metà fila, o alle spalle di chi sta per varcare la soglia della Starbucks Reserve Roastery di Milano.

Federica Serafinelli studia Filosofia alla Sapienza. È appassionata di arte, piante esotiche, lunghe passeggiate in luoghi da esplorare e nei quali perdersi.

 

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