Il cinema è morto. Viva il cinema. Ieri, 8 settembre, si è conclusa l’annuale Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, giunta alla sua settantacinquesima edizione. Il rinomato Leone d’Oro è andato ad Alfonso Cuaròn e al suo autobiografico Roma, film targato Netflix. La presenza al Festival del cinema della nota piattaforma di distribuzione online, con ben sei titoli in concorso e non, ha fatto scalpore fin da subito. L’Associazione Nazionale Esercenti Cinema e Multiplex è in rivolta da mesi. Ma le proteste delle associazioni di categoria sono armai chiaro sintomo del loro stesso anacronismo, antinomica cartina di tornasole di un mondo in trasformazione. Il punto di partenza, come sempre, è cercare di comprendere il proprio tempo, di essere storia, non mera cronaca, per utilizzare una distinzione cara a Benedetto Croce. Il cinema, oggi, per continuare ad essere storia ha bisogno di mettere a morte la storia stessa del cinema. Il cinema deve farsi Netflix.

Purché Netflix persista nel farsi cinema. Questo non significa che bisogna abbandonare le sale o che la produzione filmica perda totalmente di senso di fronte all’avanzare incontrastato del colosso dello streaming (che peraltro ha ogni giorno di più nuovi competitors tra cui Amazon, a sua volta presente a Venezia). Si vuole solo sottolineare una tendenza storica, sociale, culturale, immersa nel presente, senza nostalgie di sorta. Nell’aprile scorso, il direttore del Festival di Cannes, Thierry Fremaux, proclamava a gran voce l’esigenza di tenere distinte la storia del cinema da quella di Internet. Ma è davvero possibile mantenere questa distinzione?

Certo, il cinema è storicamente connesso alla sala cinematografica: un pubblico pagante, riunito al buio su poltroncine solitamente rosse, immerso in un “bagno sonoro” e col naso all’insù e lo sguardo rivolto al maxi-schermo. Fin dai tempi del treno dei Lumière, il cinema ha fondato la sua espressività artistica sull’impatto visivo che solo la proiezione – pare – possa dare. E questo concetto è andato esacerbandosi soprattutto dal momento in cui, con l’avvento dello schermo domestico, c’era da ribadire la “grandezza” del grande schermo. La tv del resto ha sempre subito passivamente questa gerarchizzazione culturale non riuscendo mai a sviluppare prodotti filmici all’altezza di quelli cinematografici (di un certo spessore), salvo rare eccezioni (su tutte, in tempi comunque recenti, le serie targate AMC ed HBO). Il cinema insomma si è dato da fare, esplorando nuove vie e consolidando le vecchie; la televisione invece si è quasi auto-limitata nelle sue potenzialità espressive: la storia dell’uno non poteva coincidere con quella dell’altra, e viceversa.

Con Netflix la musica è cambiata. Le “serie tv” che hanno fatto da apripista al suo successo mondiale (Orange is the New Black, Sense8 e House of Cards) rappresentano prodotti eccelsi, da un punto di vista tecnico-cinematografico. E lo sono allo stesso modo, coi fisiologici alti e bassi, molte altre serie e molti film. Pensare lo streaming e quindi Internet e quindi computer e smartphone come semplici supporti mediali ha senso fino ad un certo punto. Si pensi ai “colossal” di ogni epoca: è innegabile che Ben Hur, 2001: Odissea nello spazio, Star wars, Il signore degli anelli, Titanic, Avengers: Infinity war, riproposti su piccolo schermo perdano più di qualcosa. Ciò non toglie che sullo schermo di un pc, di un tablet o dello stesso televisore, non possano passare prodotti di qualità che riescano ad esprimersi alla perfezione anche attraverso quegli schermi, anzi che ad essi si conformino e che da essi traggano significato e linfa espressiva. Il risultato è un film, un film che non rinuncia a nulla dal punto di vista della qualità che contraddistingue la cinematografia e che dunque appartiene più alla storia di quest’ultima che a quella della televisione.

È davvero quindi relegabile ad una separata “storia della produzione filmica su Internet” (come è il caso, ad esempio, delle web series)? È possibile negare i meriti della produzione solo in funzione di una differenza di fruizione? È corretto cioè ridurre l’essenza del cinema al cinema inteso come luogo? Connotare topograficamente (sala cinematografica) il cinema non è forse delimitare e restringere le potenzialità topologiche (soglia in continua ridefinizione) della settima arte? Il direttore della kermesse veneziana, Alberto Barbera, rispose così ad Anec, Anem e Cannes: “Un festival, oggi, non può chiudere gli occhi di fronte a realtà produttive e distributive che sono e diverranno sempre più importanti: fanno parte del nostro mondo e vanno prese in considerazione”. Superiore consapevolezza storica: Netflix rinuncia sì volentieri alla distribuzione nelle sale ma ciò non inficia affatto la qualità artistica del prodotto. Questo, infatti, innanzitutto si paga (benché il suo costo sia ridotto alla virtuale percentuale sul prezzo dell’abbonamento mensile); raggiunge il grande pubblico attraverso gli stessi target “antropologici” di riferimento, ed estensioni come Netflix Party garantiscono anche la visione condivisa; infine, regia, fotografia, montaggio, recitazione, sceneggiatura, ecc. non solo non sono sacrificati ma anzi risultano spesso di livello superiore rispetto a molti prodotti distribuiti al cinema. Insomma, manca il grande schermo. Ma non per questo si può dire che manchi cinema.

Ma perché Barbera ha ragione e Fremaux torto? La risposta sta nel fatto che quest’ultimo ignora, o si ostina ad ignorare, la potenza socio-culturale di Internet. Il web 2.0, interattivo, autonomo, onnipresente, sempre a portata di click, continuamente esaltante l’autonomia dello spettatore, il web insomma dei social networks e di Netflix, non ha una storia, è la storia, è questa stessa epoca. La pervasività di Internet, vissuta dal direttore di Cannes come una minaccia eversiva di qualche presunta purezza, che altro non è se non cristallizzazione storica, è la realtà stessa, o almeno una sua estensione concreta e innegabile. La riconfigurazione mediologica nella direzione della digitalizzazione, che significa offerta illimitata e rapidità assoluta, non può non investire anche il campo artistico e dunque cinematografico. Netflix a Venezia non è mischiare grano e zizzania ma è salvare capra e cavoli. Ammazza il cinema? Forse. Gli fornisce una storica opportunità evolutiva? Sicuramente, e Barbera se n’è accorto per tempo.


 

Lorenzo Di Maria, molisano, è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

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