C’è un’immagine di questi mondiali, o meglio dei festeggiamenti che ne sono seguiti, che resta impressa più delle altre e che merita di essere analizzata: Pogba che alza la coppa del mondo tenendo in mano una foto del padre, scomparso un anno fa.

Perché si tratta di un’immagine emblematica e non semplicemente tenera? Perché è un esempio perfetto dello statuto che, ad oggi, ha assunto l’immagine, attingendo però direttamente all’arcaico umano. Nell’epoca del digitale e della istantanea disponibilità dei contenuti, l’immagine assume una ruolo iper-simbolico ma non idolatrico. Non c’è riconfigurazione trascendentale e divinizzante/divizzante, finalizzata a creare una distanza per elevare, accrescere, perfezionare determinando al contempo, dall’altra parte dello sguardo, una spinta dal basso verso l’alto, un anelito. Il simbolo non ha più tale funzione “elevativa”. Le parole d’ordine ad oggi sono narrazione visiva e condivisione. Il riconoscimento deve sempre essere possibile, perlomeno come simulato. E questo non può che dipendere dall’immagine stessa, in quanto (superficie di) ciò che abbiamo di fronte.

Ora, che l’immagine sia il medium fondamentale della modernità è ovvio. Il punto sta infatti altrove, nella cosiddetta rimediazione che caratterizza la nuova epoca massmediale ma che già Marshall McLuhan introduceva attraverso uno dei suoi assunti più celebri: «il contenuto di un medium è sempre un altro medium». Si prenda la fotografia in questione: Paul Pogba, giovane (primo simbolo, quello di una nazionale con l’età media più bassa del mondiale, subito dopo la Nigeria), di colore (secondo simbolo, quello di una Francia multietnica), il sorriso di chi ha appena vinto la coppa del mondo misto ad una sottile vena malinconica, commosso (terzo simbolo, quello di emozioni sempre ambigue, o meglio: chiarissime, ma ambivalenti). C’è poi la maglia della Francia e quindi altro inevitabile simbolismo: il blu, il gallo, il baffo della Nike. Lo sguardo va verso il centro dell’immagine: al polso destro, nero su nero, il braccialetto del lutto. È la mano destra poi a reggere il simbolo dei simboli, la coppa, la più bella tra le coppe. La mano sinistra, invece, sembra semplicemente cingerla perché ciò che questa regge a tutti gli effetti è una fotografia, che poi si scopre essere quella del padre defunto. Ed ecco che il quadro è completo, tutti i pezzi del puzzle sono al loro posto: l’immagine (di Pogba) è stata significata interamente dall’immagine (del padre).

Presenza dell’immagine/nell’immagine. Una presenza forte, non solo quella di una fotografia nella fotografia, di un simbolo nel simbolo. È una presenza ontologicamente definita, che appartiene e conferisce uno statuto nuovo (e insieme antichissimo) all’immagine stessa. Sin dalla preistoria la rappresentazione del reale è il reale stesso, semplicemente dematerializzato. L’elevato valore simbolico delle pitture rupestri risiedeva nella loro funzione pragmatica, non di riconfigurazione del reale ma di immediatezza riconoscitiva. Racconto visivo e immedesimazione, appunto. L’immagine di Pogba che dedica teneramente al padre il suo trionfo ha esattamente questa stessa funzione. L’immagine-matrioska, che è tale in quanto immagine dentro l’immagine, non la priva di concretezza ma la rende passibile di condivisione, le conferisce fatticità, autenticità. E questo in virtù della sua immediatezza comunicativa, del suo offrirsi al riconoscimento. La presenza nell’immagine è, del resto, ciò che caratterizza questo mondo: su Instagram, il social delle immagini nell’immagine, non si trovano rappresentazioni “astratte” del reale, si ritrova il reale. Anzi, è lì la sua stessa autenticità.


 

Lorenzo Di Maria, molisano, è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo

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