Il 26 giugno scorso, è andato in scena uno dei concerti più attesi dell’anno, destinato a restare un episodio essenziale della storia della musica rock di sempre; in uno Stadio Olimipico quasi sold out, i Pearl Jam (una delle più significative rock band attualmente in attività) hanno concluso il loro mini-tour italiano presentandosi al pubblico della capitale dopo ben 22 anni dall’ultima volta. Il fatto che la band di Seattle mancasse da Roma dal 1996 è particolarmente indicativo, perché ci spiega l’autentico significato simbolico che il concerto ha assunto in rapporto ai mutamenti che la società e l’immaginario hanno attraversato in questi ultimi vent’anni.
Quello dei Pearl Jam è stato uno spettacolo intriso di malinconia, un requiem che ha ammantato l’apparente fervore vitale con un senso drammatico nei confronti del rapporto che i membri del folto pubblico intrattengono con il tempo, con la propria storia e la propria esperienza. Se la pulsione di morte e la tendenza autodistruttiva erano radicati nell’altra band “rivale” della scena Grunge americana degli anni ’90, ovvero i Nirvana, i Pearl Jam hanno rappresentato il recupero (seppur moderato) dell’attitudine politico-impegnata, ma questa dimensione è stata investita dal sentimento diffuso nei confronti di quella “nostalgia del presente” che caratterizza gli attuali 30-40enni accorsi al memorabile concerto. In questo senso, anche i riferimenti all’attuale condizione geo-politica e alle problematiche inerenti alla cronaca mondiale e italiana (l’esecuzione di Imagine è lo zenit dello struggimento tragico e della chiusura ermetica del circuito simbolico) suonano più come l’estremo urlo nel deserto, il lascito di un’esperienza pluridecennale che viene goduta e riconosciuta nel quadro dello “specchietto retrovisore”, elemento al quale non a caso allude un celebre brano della banda americana.

Se negli anni ’80 il riflusso politico era rappresentato dal New Romantic e dalle band che rinunciarono ad assumere una chiara profilazione politica e ideologica, puntando piuttosto sull’edonismo superficiale dell’attrazione puramente estetica, negli anni ’90 ci fu un ritorno dell’impulso contestativo (Pearl Jam, Rage against the machine, fino ai System of a Down), ma si trattò di un recupero filtrato già dall’esperienza degli anni ’80: Kurt Cobain incarnò questa contorsione paradossale regolata dal leviatano mercantile, e pagò col suo sacrificio (apice tragico dell’entropia consumistica che si è capovolta nella negatività mortuaria e suicida). Gli orfani di Cobain, per i quali per tutto il corso della seconda metà dei 90es il fantasma rimase vigile assieme alla sua celebrazione cristica, ebbero diverse opportunità di elaborare il lutto. Nello stesso anno di quella morte uscirono Dookie dei Green Day, Smash degli Offspring, Punk in Drublic dei NOFX e soprattutto Vitalogy dei Pearl Jam (titolo quanto mai indicativo, come indicativo è il brano Immortality). Negli anni successivi il mito di queste band si è presentato come l’estremo tentativo di sopravvivere nella propria immagine (appunto, “immortalità”): fuori dalla cornice simbolica del loro apice creativo, già dai primi anni 2000 si è trattato quasi esclusivamente di procrastinare tale mito tenendolo proiettato nostalgicamente sul passato (l’attrazione del mortuario e del cadaverico come fonte di seduzione, che in Cobain è stato talmente radicale da tradurre la sua stessa esistenza in morte, mentre per i Cure divenne teatro e per Pearl Jam e Green Day la quintessenza concettuale mai palesata ed esibita, anzi sempre ammaestrata nello show come negazione dialettica).

Fare riferimento ai vari feticci di un passato-non-troppo-passato (i Pearl Jam come band della propria adolescenza, ma ancora in attività) significa attribuirgli una dimensione mitica, quando il tempo trascorso tra i “noi di allora” e “i noi di oggi” è ancora troppo stretto per caricarli di un senso e di un ruolo di questo genere. Questo è certo un bene per l’ “industria del rimpianto”, che oggi propone prodotti già ampiamente diffusi e distribuiti, senza la necessità di investire sull’originalità. Pur trovandosi nella fase ontogenetica più adeguata per realizzare le possibilità di fondazione della “novità” e per istituire inediti orizzonti di senso, perdiamo tempo volgendo lo sguardo a qualcosa e si è prodotto una manciata di anni fa, e investiamo le nostre energie spirituali e simboliche per attribuire a quella fase un ruolo e una dignità maggiori di quanto essi abbiano realmente avuto; certo, è corretto riconoscere alla band di Eddie Vedder e alle sue centinaia di fan idolatranti una “buona fede”, ma come afferma Mark Fisher  viviamo in «una cultura piagata da un eccesso di nostalgia, schiava della retrospezione e incapace di dare vita a qualsivoglia novità autentica. […] Incapacità di produrre ricordi nuovi: eccola, la formulazione essenziale dell’impasse postmoderna». Per questo, l’impressione è che le migliaia di occhi lucidi rivolti al palco dell’Olimpico fossero in realtà rivolti all’immagine di un’identità passata e irrecuperabile, e le lacrime fossero forse anche causate dalla sterilità e dalla miseria del presente, incapace di produzioni simboliche che possano pilotare il mutamento e affrontare le disgrazie dell’oggi, ovvero la catastrofe di una generazione mai divenuta realmente adulta.


 

Alessandro Alfieri è saggista e critico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa di estetica dell’audiovisivo e cultura di massa. Tra le sue pubblicazioni Il cinismo dei media, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino e Lady Gaga. La seduzione del mostro.

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