Chiuso il sipario sulla passerella degli Oscar 2019, una considerazione critica a proposito di alcuni dei titoli più acclamati e premiati dall'Academy può mettere in luce quello che ritengo sia un tema essenziale che emerge tanto in Roma, quanto in A star is born e in Bohemian Rhapsody, ovvero quello relativo al rapporto tra arte e vita. Roma di Alfonso Cuarón non a caso si è aggiudicato i premi tecnici più importanti: regia e fotografia (oltre a quello per miglior film straniero). Lo stile del film è lontano dal piglio radicalmente realista, crudo ed essenziale, del grande Gabriele Figueroa, figura essenziale della storia del cinema messicano, direttore della fotografia che ha lavorato prevalentemente con Buñuel e capace di definire un proprio stile. La regia e la fotografia di Cuarón sono un’altra cosa: non lo sguardo polemico di denuncia nei confronti di una condizione socio-storica delicata e complessa (ovvero il Messico degli anni Settanta), ma un trasfigurazione estetizzante a e tratti manierista di quella realtà. Questo non riduce l’importanza e la bellezza del film, perché Cuarón decide di trasfigurare la bruttezza della cruda e misera realtà dei sobborghi di Città del Messico nel lirismo struggente di uno sguardo mitizzante, capace di omaggiare gli ultimi e la gente semplice, ovvero lo sguardo del regista. Tutto il film potrebbe venire interpretato come una “soggettiva”, ovvero la visione interiore dell’artista che concede alla bellezza di riscattare la miseria: una bellezza che, dall’immagine patinata in b/n e dai movimenti di macchina sinuosi e poetici alla Tarkovskij, si trasmette sul piano morale della protagonista, del suo sacrificio e del suo sentimento autentico. Se pensiamo al ruolo dell’estetismo visionario della fotografia di Vittorio Storaro nel cinema di Bertolucci, possiamo trovare una corrispondenza nobilissima del piglio estetico che Roma ha adottato: anche in Ultimo tango a Parigi, la storia di degrado esistenziale e di violenza sadomasochistica viene filtrata e restituita magicamente nel fascino incantato della qualità espressiva fotografica e registica. L’arte, l’espressione estetizzante, è capace di trasfigurare anche la miseria, la sofferenza e l’ingiustizia, dandogli un senso, un riscatto, come un estremo omaggio agli ultimi. Ebbene, non è forse questa la dimensione ideale per comprendere anche altri due film, così distanti da Roma, come The star is born e Bohemian Rhapsody? In A star is born, questo elemento del rapporto tra vita e arte innerva la sceneggiatura: una vita inappagata, umile e condannata ai margini, spicca il volo proiettando la protagonista nello star system musicale. L’ascesa di Ally/Lady Gaga rappresenta la capacità della musica di innervare di senso l’esistenza, quando però nel medesimo istante nega tale possibilità nella depressione e nella condanna di Jack/Bradley Cooper che a ben vedere intraprende il percorso inverso di discesa agli inferi (la musica, e perciò l’arte, non riesce in lui a dominare i demoni interni). Il limite del film è che resta irrisolto (per quanto sembrasse potesse venire trattato a un certo punto della pellicola) il dibattito sulla tensione tra musica “autentica” (rock’n’roll) e scena pop intesa come plastificazione iperteatralizzata della musica che diviene prodotto culturale pilotato dall’alto. La parabola di Freddy Mercury e dei Queen in questi termini ha molto da insegnare, e qui veniamo al terzo film: quella dei Queen è stata la proposta postmoderna del preraffaellismo ottocentesco, innestata a una visione decadentista ed estetista novecentesca dove teatro e vita, arte e realtà si scambiano le parti in una osmosi sacrificale e drammatica. Nei Queen, la vita si sacrifica all’arte, la musica rock diventa scenario iperesteticamente spettacolare che intenzionalmente rifugge l’essenzialità brutale dell’esistenza: ma il film dimostra come la vita poi, attraverso la malattia e la solitudine, non possa non irrompere infrangendo il simulacro dell’apparenza. Se l’arte di Cuarón è messa al servizio dell’esaltazione di quella semplicità esistenziale che attraverso il proprio sacrificio ha concesso a un paese di affrontare la miseria e le tensioni della storia moderna, l’arte in A star is born è occasione di riscatto esistenziale ma contemporaneamente messa in evidenza del proprio intrinseco e insormontabile limite, perché sempre pronta a trasformarsi nella gabbia terribile dello spettacolo; e questo è quanto appare anche in Bohemian Rhapsody, dal momento che lo spettacolo artistico che esalta il protagonista è dialetticamente occasione di esaltazione e condanna. Forse la chiave di interpretazione è proprio questa: Cuarón vede il bello nell’umiltà lasciandola nella sua condizione, la vicenda degli altri due film è basata invece sulla trasfigurazione di una vicenda di un “qualunque” nell’olimpo della musica internazionale. Nel primo caso il cinema esalta chi non ha avuto occasione di rendere manifesta la sua vicenda, nel secondo si percorre la strada inversa per fare emergere la semplicità da cui proviene il trionfo massmediale: in Roma lo sguardo estetizzante, l’arte, restano esterni, negli altri due la pratica di estetizzazione passa attraverso la vicenda dei protagonisti, ribaltando la dialettica perché ciò che mettono in mostra è l’incapacità dello spettacolo di caricare di senso una vita che sul palco appare piena e folgorante.
Alessandro Alfieri è saggista e critico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa di estetica dell’audiovisivo e cultura di massa. Tra le sue pubblicazioni Il cinismo dei media, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino e Lady Gaga. La seduzione del mostro.

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