Sarà stato mica Matteo Salvini a rubare a Roland Barthes la formula della settima funzione del linguaggio?
Belpoliti da tempo sottolinea l’uso performativo che il capo della Lega fa delle frasi a effetto. Con Austin, hanno valore performativo quelle enunciazioni che non descrivono un’azione né servono per constatare un fatto, ma vorrebbero coincidere con l’azione stessa: quando dire è fare. E perché le frasi non siano solo chiacchiere, Salvini le indossa anche. Dalla canotta dell’Umberto, alle felpe dello zelig Matteo, padano in padania, marò coi marò, siciliano tra i siciliani.

La comunicazione del capo leghista sembra davvero far tesoro di quella presunta, settima funzione performativa del linguaggio al centro del plot del romanzo di Laurent Binet dallo stesso titolo: una funzione che permetterebbe a chi la controllasse di convincere chiunque, in qualsiasi circostanza.
Un’istruzione? Un sortilegio? Binet immagina che Roland Barthes nel febbraio 1980 muoia assassinato. Muore, mentre un alessandrino dell’ultima tragedia di Corneille – Suréna – gli increspa le labbra: «Toujours aimer, toujours souffrir, toujours mourir». Chi lo ha ucciso voleva rubargli un appunto nel quale il semiologo avrebbe fissato le caratteristiche della settima funzione del linguaggio, sulla scia di Roman Jakobson che ne aveva definito le prime sei. Sulle tracce della funzione rubata si buttano senza esclusione di colpi spie russe, bulgare e nipponiche, ma anche Julia Kristeva e il marito Philippe Sollers, Jacques Derrida, John Searle e gli scagnozzi del Presidente Giscard d’Estaing impegnato nella campagna elettorale contro Mitterand. Una coppia improbabile indaga: un poliziotto di destra, il commissario Bayard, ed un giovane ricercatore di sinistra, Simon Herzog (S.H. come Sherlock Holmes, obviously), prezioso virgilio tra le sabbie mobili e i miasmi del mondo accademico.

Un coro poliforme assiste, tifando, alla scena: e spuntano Althusser, la crapa pelata di Foucault, un Sartre avvizzito, la camicia bianca di Bernard-Henry Lévi, le pipe di Lacan e di Umberto Eco (qui nella parte del Grande Protagora, massimo sacerdote della setta del Logos Club) e cento altri politici ed esponenti della «French Theory», e non solo.
Per 454 pagine Simon ci trascina con sé: a Bologna mentre scoppia la bomba del 2 agosto ‘80; in una biblioteca notturna in cui sfugge ad un accoltellamento e assiste ad una scena di sesso selvaggio su fotocopiatrice; a Parigi, mentre incontra Giscard e incrocia Foucault in una sauna gay; alla Cornell University di Ithaca, dove si riunisce una società segreta – il Logos Club, appunto – in cui intellettuali sofisti si sfidano a prezzo del taglio delle dita ai perdenti. Fino a perdere una mano egli stesso, mozzata in una vetreria di Murano: monco, come Miguel de Cervantes dopo Lepanto. Testimone di grandi battaglie, come il grande autore del Don Chisciotte. Ma, a differenza che a Lepanto, dove la cristianità giocò la propria sopravvivenza contro il mondo ottomano, i membri del Logos si sfidano su temi casuali: vince chi meglio argomenta, non chi enuncia le ragioni più solide. La vittoria arride all’exploit, alla performance più riuscita, non agli argomenti più solidi. È letteratura, ma pare politica.

Eppure, queste sfide intellettuali sono cruente, spargono sangue: Barthes arrotato da un camioncino, Derrida sgozzato da un cane feroce, Searle suicida da un ponte in un torrente ghiacciato. Simon, amputato: e gli va anche bene, rispetto a Sollers al quale vengon recise le palle con una cesoia, una volta persa la sfida col Grande Protagora. Per fortuna, siamo in un romanzo. Neo Adso da Melk, il buon Simon, arriva a questionare più volte lo statuto della propria stessa realtà: «I think I’m trapped in a novel». In un romanzo divertente, peraltro, specie per chi si occupa di linguistica e di filosofia.
Mentre i personaggi fantastici, o soprannumerari (per dirla alla Eco), del giallo di Binet si rimpinzano di citazioni, non così Salvini e i suoi epigoni. Da vincitori, incedono spediti, consapevoli – temo – che il controllo del linguaggio è sempre stato l’obiettivo fondamentale della politica, dall’antichità fino a oggi. La fortuna va in pezzi, insieme alla Sinistra. Non siamo in “Matrix”, purtroppo. Piuttosto, questa cosa di tenebra, è cosa nostra. È nostro, questo paesaggio italiano di rovine bruciate.


Luciano De Fiore insegna Storia della Filosofia Moderna alla Sapienza, Roma. Si occupa di mare, Hegel, psicoanalisi e passioni.

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