Uno degli elementi più interessanti emersi dalla serata inaugurale del Festival di Sanremo è la conferma di un trend espressivo che ormai dura da qualche tempo  e non più essere considerato una moda passeggera: la tentazione del monologo.

Il monologo è diventato il sinonimo della profondità, del contenuto. Di ciò che si stacca dal piano leggero dello spettacolo ricreativo e affronta i temi alti, importanti, quelli che riguardano la vita. Ora, al netto delle valutazioni specifiche sui singoli esempi di monologhi che si sono succeduti a Sanremo e non solo negli ultimi anni (alcuni più riusciti, altri meno, com’è nel normale accadere delle cose), è la cosa stessa a dover essere fatta oggetto di riflessione: perché il monologo? Cosa implica questa fascinazione verso il discorso del mònos, del singolo, di colui o colei che si staglia nella solitudine a voce del valore/dei valori?

Tra la molteplicità di prospettiva che possono essere chiamate in causa, ci sono sicuramente tre aspetti preponderanti (uno fattuale, uno formale, uno contenutistico) che meritano di essere esplicitati.

Fatto – Il dato fattuale è forse il più facile da constatare, ma non per questo meno significativo. L’esplosione dei social network ha abituato ciascun utente all’espressione del sé. Il mònos, il singolo, ha trovato un’inaspettata (storicamente) capacità di esplicitazione del proprio pensiero, abituando ognuno alla solitudine non contestata dell’affermazione. L’attitudine al post è fondamentalmente un’attitudine monologica, un affermare che – certo – può essere commentato, ma il commento è un elemento subordinato, qualcosa che rimane anche visivamente sotto. Al centro c’è l’affermazione, l’atto espressivo monologico di se stessi.

In questo ambito d’esperienza va collocato l’inflazionato ricorso al monologo negli spazi rappresentativi, un facile strumento che fa leva sulla forza dell’abitudine. Attraverso uno scambio implicito, lo spazio di condivisione plurale (quale è un palco), diventa la prosecuzione dello spazio di condivisione privato fintamente plurale (quale è la bacheca personale di un social network) e la modalità di espressione tende a replicarsi: affermazione del monologo a scapito del dialogo.

Forma – Ora, sia chiaro, non è che il monologo sia una forma esotica rispetto alla cultura occidentale, al contrario la connota sin dagli inizi drammaturgici dell’antica Grecia. La questione è che la forma monologante era allora relegata all’eccezionalità di un annuncio divino, all’unicità di un messaggio che eccedeva i confini usuali dell’umano. Con il passar dei secoli il mondo umano è divenuto via via più complesso e, non a caso, la forma espressiva della modernità (industrializzata e tecnicizzata che dura tutt’oggi) è stata il romanzo, il luogo della plurivocità dove la molteplicità degli aspetti del reale riusciva quanto meno ad avere diritto di presenza.

Il romanzo con il suo racconto a più voci ha tentato, e tenta, di risponde al carattere variegato del reale. Il monologo, viceversa, con la sua inclinazione all’unicità tende a isolare il reale, cogliendone un solo aspetto, riducendo la complessità a qualcosa di lineare, di semplice, di decontestualizzato.

È chiaro come nel monologo la priorità del punto di vista espressivo riesca a schiacciare molto spesso in ottica valoriale il reale. Il problema è che rischia di perdere di vista il tratto fondamentale dello stesso: cioè la pluralità, la molteplicità, l’impossibilità dell’isolamento di un singolo aspetto.

Contenuto – Sebbene abbia perso la rilevanza dei secoli passati, il monologo continuava (prima della rinascita contemporanea) ad avere un suo statuto specifico relativo all’eccezionalità della prospettiva. Il monologo era la forma per elaborare un contenuto eccentrico rispetto alla normale modalità di percezione del reale. E quindi era il veicolo espressivo della sovversività comica, attraverso la quale la normalità veniva messa alla berlina o il mezzo rarefatto dell’unicità artistica, un momento teatrale o un momento musicale alto. Sempre comunque qualcosa di estraniante, di contrastivo rispetto al buon senso comune. Mai qualcosa che andasse incontro ai desideri di esso.

Ecco l’altra grande questione relativa all’inflazione monologante di questi anni: la piattezza contenutistica. L’annuire del pensiero di fronte a idee ben confezionate, rispetto alla quali non si può non essere d’accordo. Ma ciò non basta per giustificare il silenziamento del dialogo a favore dell’uno parlante. Questa libertà si concede al poetare che, nella solitudine del verso, spalanca l’abisso dell’umano, inquietando e ponendo ciascuno di fronte all’incertezza dell’essere umano.

Per i pensieri puliti e pettinati che rassicurano sulla bontà personale basterebbe meno, molto meno, della tacitazione del dialogo dove, per lo meno, ciascuno ha diritto di parola.

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