Ideata e diretta dalle sorelle Wachowski, Sense8 nasce nel 2015 come uno dei più ambiziosi progetti Netflix. Un investimento enorme ma ritenuto necessario per lanciarsi sul mercato globale. Ed è andata bene. A Netflix. Alla serie invece, evidentemente, non abbastanza. Dopo la seconda stagione, infatti, ne è stata improvvisamente decisa la cancellazione. Il punto però è che, se i numeri non avrebbero comunque giustificato il prosieguo di una produzione con riprese dislocate in almeno otto locations sparse per il mondo, dall’altro lato Sense8 aveva radunato attorno a sé un cospicuo numero di ammiratori che non potevano accettare che tutto finisse con quel “Volete la guerra? E guerra avrete”: un taglio di netto, assolutamente inaccettabile. I fanclub insorgono, è rivolta sui social con tanto di lettere di protesta contro Netflix. Risultato: un unico episodio finale di circa due ore e mezza, espressamente dedicato ai fan, senza infamie né lodi, l’happy ending che tutti volevano.

Eppure Sense8 meritava di più. Non solo perché ben sceneggiata, recitata e girata. Non solo perché l’intreccio delle otto vite, separate e al contempo unite, dei protagonisti avrebbe potuto fornire un’infinità di filoni narrativi diversi. E di certo vuol mettere in discussione la dura lex del mercato, soprattutto di fronte ai circa due milioni di dollari da sborsare per ogni singolo episodio. Sense8 meritava di più perché si tratta di un manifesto generazionale. Non una rappresentazione fedele ma metaforica, che intreccia umanità presente e a venire, il suo essere e il suo dover essere.

Innanzitutto, Sense8 come metafora dell’umanità in rete. Persone lontanissime nel mondo abbattono qualsiasi barriera spaziotemporale e interagiscono tra loro. Ma c’è di più. C’è la condivisione di esperienze, idee, conoscenze e competenze. Empatia non più solo come vicinanza ma come vera e propria sovrapposizione. È l’intelligenza collettiva di cui parla Pierre Lévy, ossia un’intelligenza non più singola ma mondiale, implementata da un reciproco completarsi possibile solo in virtù della condivisione, solo creando cioè una rete di interazioni culturali. Lo spirito umano, e dunque ogni vita, risultano arricchiti dalle potenzialità altrui, e i difetti divengono opportunità, le lacune risultano colmate, il bisogno di sapere soddisfatto, le proprie capacità valorizzate. Perché condividere quotidianamente esperienze e idee su Facebook se non con un fine di collettivizzazione della coscienza, se non per un’esigenza di empatia, per trovare la propria rete di sensates e magari scoprire lì che ciò che sembrava un’isola potrebbe rivelarsi un arcipelago e così via?

È in tal senso che va interpretato il costante riferimento alla libera sessualità e ai diritti LGBT e in generale l’insistenza sull’amore come valore universalizzante. Non c’è in Sense8 esaltazione sentimentalistica fine a se stessa. L’amore è inteso come principio di realtà. Empedocle di Agrigento parlava di Amore e Contesa come due forze fisiche non come due impeti emotivi, principi ontologici non morali, dalla cui perenne lotta dipende il divenire che costituisce il reale. L’ultima puntata di Sense8, con un atto di forza, proclama un vincitore e titola con Virgilio “Amor vincit omnia”. Di fronte ad una società iper-polarizzata e che sui social scatena quotidianamente una guerra civile digitale, questi propositi suonano irreali, utopici. E lo sono. Ma un’utopia va riaffermata con forza proprio nel momento in cui si hanno finalmente a disposizione i mezzi per realizzarla.

L’intento della serie è, nel suo piccolo, mostrare il cammino. Del resto, l’homo sensorium è una specie umana sempre vissuta accanto ai sapiens ma sempre da questi controllata, nascosta, inibita. Essa rappresenta il destino, il dover essere dell’umanità, divenuto possibile proprio grazie a quei media digitali che ad oggi appaiono così disgreganti. Cos’è dunque questa utopia chiamata Amore? La risposta la fornisce in una delle sequenze finali la ministra francese che si appresta a celebrare il matrimonio tra Amanita e Nomi, una sapiens e una sensorium: “Nessuna cosa è una cosa sola”. Amore significa che non esiste singolarità, che non può esistere individualismo e dunque differenza, che non devono più esistere barriere. La struttura intima di una realtà svuotata di Odio o Contesa è quella di una realtà in cui ogni cosa è sempre insieme se stessa e un’altra, o altre otto: ogni cosa cioè è se stessa solo nella misura in cui è arricchita dall’altro, solo nella misura in cui il lontano, il diverso, non è più altro da sé ma coincide con quel sé, non è più solo il prossimo, il vicino, ma è, empaticamente, Sé, spirito umano.


Lorenzo Di Maria è laureato in Filosofia con una tesi sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

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