Sullo scadere del 2018 escono in Italia due film che si posizionano agli estremi siderali del concetto stesso di cinema. La contiguità temporale è di certo un caso, direbbe il filologo. E questo è certo. Da un punto di vista ermeneutico tuttavia tale prossimità apre uno squarcio interpretativo. I due film sono: Cold War e Bandersnatch. Da una parte il film con cui Pawel Pawlikowski ha vinto miglior regia a Cannes e dall’altra l’ultimo episodio di Black Mirror, la serie targata Netflix sulle conseguenze distopiche di un uso smodato della tecnologia.

I due film costruiscono quella che in filosofia si chiamerebbe una dialettica. Qualcosa che potremmo anche tradurre come un “cortocircuito”. Uno è girato totalmente in bianco e nero e in 4/3, l’altro è un film interattivo dove lo spettatore incide sulle scelte che il personaggio principale compie durante la storia. Uno è il film che calca la classicità e torna al cinema delle origini (niente colore, immagine parallelepipeda, scansione in atti come un film muto), l’altro è un film che porta il cinema nel futuro del cinema. 
Ma le cose stanno davvero così? È davvero così semplice determinare la modernità dell’uno e la classicità dell’altro?

Black Mirror, o della modernità
Non importa tanto stare a parlare di trama. Bandersnatch è il gioco che Stefan Butler, il solito adolescente introverso ma geniale, deve programmare per essere assunto dalla Tuckersoft, uscire sul mercato e fare il botto di vendite. Il gioco si basa su un assunto: a seconda delle scelte del giocatore il gioco prenderà storyline diverse. La puntata Netflix è la metonimia del gioco. Come il giocatore, lo spettatore sceglierà per Stefan e a seconda dei casi osserverà finali diversi.

  • Problema numero 1: la tanto blasonata “modernità” di un tale concept non arriva, come qualsiasi tipo di modernità che rompa con la classicità, sconvolgendo un panorama esistente. Essa era attesa e, anzi, si può dire che sia arrivata in ritardo all’appuntamento. Dal giardino dei sentieri che si biforcano di Borges alle sperimentazioni degli ipertesti degli anni settanta e ottanta come Composizione numero 1 di Marc Saporta fino alle produzione della Quantic Dream (su tutti Heavy Rain prima e Detroit dopo) l’applicazione di un tale concept al cinema (dopo la letteratura e il videogaming dunque) era cosa ben prevista.
  • Problema numero 2: Qual è l’assunto teoretico che ne sorreggerebbe la “surmodernità”, per dirla con un termine caro ad Augé? Il soggetto che guarda il film entra dentro il film. L’assunto dovrebbe funzionare come il gatto di Matrix, cioè dovrebbe creare un fastidioso effetto di déjà-vu. Già perché questo era esattamente lo stesso assunto (seppur declinato diversamente) di un’altra tecnologia nata e morta qualche anno fa: il 3d. Gli occhialini, la cesta fuori dalla sala, il dinosauro che spalanca le fauci a tre millimetri dalla tua faccia. Ecco, anche il 3d aveva tentato di portare lo spettatore dentro lo schermo, fallendo.

Il problema è di ordine strutturale. Cioè inerisce la natura stessa del cinema.
Vediamo cosa accade con il film di Pawlikowski.

Cold War di Pawlikowski, o della classicità
Il film è la storia d’amore tra Zula, fuggita dagli abusi del padre, (Joanna Kulig) e Wiktor (Tomasz Kot), il direttore del coro di canti popolari polacchi dove Zula spera di entrare. Zula canta e Wiktor la dirige. Fin quando il loro flirt diventa una storia d’amore. Nel 1952 lui sconfina e lei non lo segue. Cold War è la storia dei loro incontri e delle loro separazioni. La narrazione li rincorre da Varsavia a Parigi a Berlino, la cerniera che dovrebbe tenere insieme l’est con l’ovest.

Il film dura 84 minuti. Come il precedente Idail cinema che esprime Pawlikowski è certamente un cinema al confine con la fotografia: il bianco e nero, il taglio netto dell’inquadratura, l’uso platico della luce che immobilizza la fluidità tutta cinematografica dentro la cornice del quadro.

Il film è composto da continue interruzioni e salti geo-temporali di sequenza in sequenza. Si cambiano gli anni e mutano i riposizionamenti politico-sentimentali di Wiktor e Zula. Esattamente come accadeva per i movimenti di Chaplin, secondo quanto ha notato Walter Benjamin. Gesti che «scompongono il movimento espressivo in una sequenza di minuscole variazioni». Spezzettando così il gesto in movimenti (un termine proprio, non a caso, anche della sfera musicale di Zula e Wiktor) il cinema si fa oggetto perfetto di quello che Benjamin ha definito uno “sguardo distratto”.

Il rovesciamento
Il cinema è quell’oscuro oggetto del desiderio che si lascia analizzare, ed esperire, in un punto molto preciso e inafferrabile dello spazio. Non è né qui (fuori) né lì (dentro). Tentare, come ha fatto il 3d (che ha perso la partita tecnologica con il 4k, l’ultradefinizione 2d) e ora il film interattivo, di trascinare lo spettatore dentro la narrazione è tradire il presupposto base del cinema. Cioè è la strategia più efficace per romperne la magia del dentro/fuori.
Così come la letteratura interattiva contro la letteratura “classica”.

Allora chi è più moderno, il film di Pawlikowski ambientato in Polonia negli anni cinquanta, in bianco e nero e in quattro terzi ma che riesce (compiendo un vero e proprio miracolo) a portarti nella Polonia di settanta anni fa o il film interattivo di Netflix?
Certo, il film di Netflix è divertente. Ma come la festa di bambini nei 10 minuti in cui vai a riprendere tuo figlio.

E poi, sinceramente, se Tolstoj vi avesse lasciato scegliere, lì vicino ad Anna dopo quel secondo fortunato tentativo andato a vuoto: buttarsi sotto al treno o tornare da Vronskij, che tanto era stato tutto un misunderstanding e parlando si risolveva tutto, cosa avreste scelto?
Ecco, appunto. E per questo motivo Anna Karenina l’ha scritto il conte Lev Tolstoj.

Matteo Sarlo è nato a Roma nel 1989, dove vive e lavora come Editor.
Nel 2018 ha pubblicato Pro und Contra. Anders e Kafka.
Ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana.
È fondatore di Globusmag.it

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