Nei giorni scorsi si è conclusa, dopo sei stagioni, la serie Fox The Americans, entrando di diritto nel novero delle più belle del decennio e, con argomenti, tra quelle migliori dell’età dell’oro televisiva. La storia è quella dei Jennings, una coppia di spie del Kgb, che vivono da operativi infiltrati in un sobborgo di Washington. Philip ed Elizabeth, i coniugi Jennings, hanno due figli, Page e Henry, e, come lavoro di copertura, hanno un agenzia turistica. Gli eventi narrati si svolgono tra l’inizio degli anni ‘80, segnati dello storico discorso di Ronald Regan in cui connota implicitamente l’Unione Sovietica come “evil empire” (l’impero del male), fino alla fine del 1987 e al summit americano tra lo stesso Regan e il segretario del partito comunista sovietico, Mikhail Gorbaciov, nel quale si definisce il trattato sulle armi convenzionali START. E start, inizio, è anche il titolo dell’ultima puntata della serie che gioca volontariamente con il rapporto tra la grande storia del mondo e la piccola storia delle due spie. Start è l’inizio dell’inizio di una nuova fase di dialogo internazionale e, insieme, l’inizio della fine di una fase esistenziale dei due protagonisti.

Come si può vedere già da questo primissimo quadro di collocazione tematica e temporale, la serie presenta una notevole ricchezza di piani di interpretazione e una molteplice stratificazione di suggestioni tematiche. Le riflessioni che seguono provano però a superare la sfolgorante varietà presente in The Americans per provare ad andare dritto al punto essenziale che segna la specificità della serie e permette il paragone con le altre grandi narrazioni visive televisive. Se Don Draper e Mad Men hanno il loro fulcro nel racconto dell’infelicità nonostante il successo, se Tony Soprano e l’omonima serie lo hanno nella dirompenza del caso che eccede ogni controllo, se Walter White e Breaking Bad lo hanno nell’ambivalenza del potere della conoscenza, The Americans lo ha nella nostalgia. Non tuttavia, semplicemente, nella nostalgia, così come si intende usualmente, “avere nostalgia per qualcosa di passato”, quindi come qualcosa di andato, definito. E quindi una nostalgia chiusa per quel preciso momento, per quel preciso luogo, situazione o persona. La nostalgia dei Jennings, ma non solo loro anche di Stan Beemann (l’agente Fbi, vicino di casa di Philip ed Elizabeth) od Oleg Burov (agente del Kgb di stanza presso l’ambasciata sovietica di Washington), è un sentimento aperto, cangiante, che rincorre se stesso senza mai avere un punto preciso su cui andare a soffermarsi.

Qui, in questo disagio continuo, in questa incapacità di sentirsi mai a casa, arrivati o realizzati nella propria missione, si radica il tratto essenziale della serie. Il lavoro narrativo che si concentra nella relazione tra Philip ed Elizabeth è poi ulteriormente complicato dalla differente presa di consapevolezza che avviene tra i due rispetto a questo afflato nostalgico.

Elizabeth

Il catalizzatore della vita della signora Jennings è il dovere nei confronti della patria. Lei è convinta lungo (quasi) tutto il corso della vicenda narrata di essere uno strumento al servizio di un piano più grande, di un grande affresco storico all’interno del quale anche le azioni più minimali trovano una ragione d’essere. Forte di questa struttura ideologica, Elizabeth vive il suo disagio quasi fosse un corollario susseguente. Non ama la vita americana, però lo fa per amore della madrepatria. È vero pure che la vita in Russia era difficile, ma l’ha dovuta abbandonare per svolgere la sua funzione. È vero che le piacerebbe aver avuto un uomo che l’avesse amata per quello che era e che l’avesse scelta liberamente. Però Philip, in qualche modo, è l’uomo della sua vita. E così via, i figli, la fatica del lavoro, la contingenza irredimibile propria del vivere. Elizabeth sarebbe sempre altro, farebbe sempre altro (ed effettivamente è sempre altro, è sempre altro negli anfratti del proprio sé) se non ci fosse il lavoro a tenere fissa, a obbligarla a “vivere”, questa vita, questa singola mortale vita che fugge via, senza lasciare nulla dietro di sé.

Philip

Per lui il percorso è diverso, più esplicitamente travagliato, più emotivo e meno ideologizzato. Il rapporto con il dovere si scioglie più velocemente. Il richiamo della famiglia risuona in lui più forte e rompe, puntata dopo puntata, la giustificazione professionale. Non c’è ragione superiore che obbliga a essere così. Così soli, così sfuggenti, così lontani da tutto. È l’incapacità di riconoscersi in un posto, in una relazione umana, in qualcosa di stabile che spalanca in Philip la porta verso lo struggimento, verso la melanconia dell’essere. La Russia, l’America sono due facce della stessa medaglia, due realtà allo stesso modo straniera che non garantiscono appartenenza. E, in perfetta prospettiva dialettica, sono sempre l’altro al quale guardare per compensare la condizione nella quale si versa.

Il meccanismo funziona fino a quando la crisi si fa più radicale. Lo spazio dell’uomo pubblico, il lavoro da spia, si eclissa completamente di fronte all’ansia privata di trovare una solidificazione esistenziale. È uno spasmo che irretisce la vita, ma non trova accoglienza. Non è il figlio, Henry, non è l’amico, Stan, non è il lavoro. Non è la stessa moglie, Elizabeth. Rimane solo un rimando continuo, circolare e vuoto, che fatalmente aspetta l’inevitabile appuntamento con il destino.

Nostalgia aperta

Il destino dei Jennings, nel momento in cui hanno accettato di svolgere il compito loro assegnato, era segnato. Rinunciare a essere, rimanere intrappolati nel frammezzo di quello che non erano e non sono, proiettandosi verso un essere futuro che sarà comunque una forma di esilio: questo è il loro vivere. Non c’è un momento preciso al quale ritornare e del quale avere nostalgia. Non un luogo, non una persona. È l’intero spossessamento della propria esistenza a essere continuamente nostalgici. È tutto quello che non è e sarebbe potuto essere. È un sentimento aperto, che per paradosso guarda anche al futuro, a ciò che, quando sarà, sarà diverso da quello che sarebbe dovuto essere. Quindi, già da ora, loro ne hanno nostalgia. Elaborano il lutto dell’assenza.

È aperta e onnicomprensiva la nostalgia dei Jennings. È aperta senza punti di riferimento (spirituali, ideologici, storici) che la possano mitigare. È un mare calmo, contro ogni evidenza se si considera il lavoro che svolgono, dove il navigare è il vivere. E il viaggio che si compie è sempre in direzione di un porto che non si rivela sicuro e obbliga, di volta in volta, a un nuovo viaggio. Neanche la rassicurante immagine di un'Itaca cui prima o poi giungere è concessa ai Jennings.

Credit foto: pagina Facebook The Americans

Salvatore Patriarca Giornalista, filosofo, imprenditore. Il suo ultimo libro è Il digitale quotidiano (Castelvecchi).  

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