Sarà meglio chiarirlo subito, il video che i The Jackal hanno dedicato a Masterchef, in occasione della ottava edizione del programma (qui in Italia), fa ridere di brutto. Ma non è tanto questo, vedere i giudici prestarsi alla loro stessa delegittimazione (non solo almeno). E non è nemmeno il fatto che i The Jackal giocano (benissimo) a livello formale: il video è in montaggio alternato, ed è noto quanto il montaggio sia da sempre la struttura portante del Cooking Show di Barbieri, Cannavacciuolo e Bastianich. Da quest’anno anche di Giorgio Locatelli, che va a colmare il vuoto lasciato in eredità da Carlo Cracco. Perfetto, una star. No, il punto è concettuale. Perché i The Jackal individuano esattamente il nodo problematico di quella che – sono passati otto anni, si può dire – si delinea come una vera metamorfosi nella cucina degli italiani.
Al centro di tutto, due amici che decidono di prepararsi una carbonara, a casa.
L’individuazione del luogo è centrale, perché determina funzione dell’esecuzione e base del rovesciamento interpretativo.

Il prototipo narrativo è senza dubbio quello della fiaba, imperniato sulla legge: quando qualcuno dice “io non credo nelle fate” da qualche parte c’è una fata che muore. La riconfigurazione è altrettanto chiara: quando qualcuno “cucina di merda” da qualche parte nel mondo c’è uno chef che muore.

Ma che ce ne fotte 1: guanciale o pancetta?
Il corto, che dura poco più di due minuti e mezzo, è tutto giocato sulla ripetizione dello stesso schema narrativo. C’è un amico che cucina e uno che si fa i BIP propri col cellulare. Sottotesto: non è che gliene freghi molto della cucina (l’altro invece vuole fare le cose per bene). E allora si comincia.
Pancetta o guanciale? Notoriamente la “materia prima” (così si dice adesso) corretta è la seconda ma manca in frigo. Sguardo di intesa, poi quello bravo, quello che vuole fare le cose per bene, se ne esce con un: ma che ce ne fotte. E tac, inquadratura su Cannavacciuolo che parla al telefono nello studio asettico e pulitissimo di Masterchef, attacco cardiaco, morto.

Ma che ce ne fotte 2: parmigiano o pecorino?
Rewind, lo schema riparte. Quello bravo apre il frigo e chiede: parmigiano o pecorino?
Qui inizia il climax, un climax non troppo evidente ma che sorregge tutto il corto. L’elenco ascensionale è tutto giocato sulle ragioni delle scelte. Se il primo scioglimento della disgiuntiva era affidato ad un mero dato di fatto, uno stato di cose comprensibile (il guanciale sarebbe meglio ma non c’è, quindi usiamo la pancetta) ora la ragione slitta nel campo del gusto: pecorino troppo salato, meglio parmigiano. Sguardo di intesa, poi (questa volta) insieme: ma che ce ne fotte.
Se quindi prima si era trattato di un errore forzato, qui si tratta di quello che in gergo tennistico si definirebbe un errore gratuito. Se prima la scelta era stata determinata, ora la scelta è voluta e basata su un criterio chiarissimo, quello del giudizio personale. Meglio, del gusto. E tac, inquadratura su Barbieri che è arrivato in soccorso dell’amico, attacco cardiaco, morto.

Ma che ce ne fotte 3: acqua di cottura o panna?
Rewind, ancora. Siamo all’ultima fase della preparazione del piatto. L’amico bravo, quello che vuole fare le cose per bene, nota che la pasta è un po’ asciutta. E allora vorrebbe aggiungere acqua di cottura per meglio amalgamare il piatto. L’altro, quello che sta ancora col cellulare in mano, risponde senza neanche stare a guardarlo o a discuterci, come se in fondo non cambiasse poi tanto: «mettici la panna». Sulla panna l’amico tentenna un poco. Poi sguardo d’intesa, e ancora insieme: ma che ce ne fotte.
Qui il climax raggiunge l’apice. Qual è la motivazione che detta questo tipo di scelta? Nessuna.
Motivazione fattuale, motivazione di gusto, nessuna motivazione. A dettare la scelta è il caso. E tac, inquadratura su Locatelli, attacco cardiaco, morto.

Ma che ce ne fotte 4: Würstel.
A questo punto il piatto è finito. I due amici sono a tavola. Una boccata, poi un’altra. Poi quello che è stato tutto il tempo col cellulare constata: «ma è buona». L’altro conferma: è venuta benissimo. Inquadratura su Bastianich, che intanto ha visto i corpi degli amici dalla “balconata” e ha deciso di rifugiarsi in albergo, chiudere la porta a chiave, aspettare la sorte.
Battuta di quello bravo, quello che voleva fare le cose per bene, ormai convertito: «la prossima volta – pausa –, la facciamo con i würstel».
Oltre l’apice del climax può esserci solo la caduta dell’assioma disgiuntivo e l’asserzione di un’unica rinnovata verità.
E tac, inquadratura su Bastianich, attacco cardiaco, morto.

Il miracolo di Masterchef
Al di là del ritmo e delle scenette, il video pone apertamente la questione: può un piatto sfuggire alla binaria logica Facebook mi piace / non mi piace? La premessa concettuale, in forma (ancora) interrogativa è: il piatto può essere qualcosa di oggettivamente riuscito?
Ed è proprio su questo punto che ha giocato Masterchef, compiendo un miracolo televisivo: trasformare la saggezza dell’occhio, del “vado a braccio”, del “sentire” il piatto, in operazioni calcolate. Importare una razionalità di stampo analitico (e su questo gli anglosassoni sono imbattibili) in un contesto tutto legato al quaderno della nonna. Eccola, la mutazione. Dalla sedimentazione (tutta di marca italiana: mangiamo quello che abbiamo mangiato) alla sperimentazione.
Come ci è riuscito? Lavorando su due direttrici:

1. La cucina come professione: 4 minuti e mezzo
Come ogni altro mestiere, quello dello chef ha le sue regole. C’è un canone e, se si vuole riuscire a creare qualcosa che funziona, bisogna rispettarle. In una delle ultime puntante della stagione in corso Verando, un giovane responsabile marketing di Viterbo, presenta una insalata di aragosta particolarmente sbagliata. Barbieri si inalbera (o per dirla come l’ha detta lui: «gli scende la catena»). Il piatto è completamente fuori fuoco. Nel mezzo della sua sfuriata lo Chef intima che avrebbe potuto fare anche una cosa molto semplice, cuocendo l’aragosta in quattro minuti e mezzo. Ecco, la cucina come professione. Il fatto che questo modo di vedere la cucina si sia diffuso anche ai non addetti ai lavori, fa parte della metamorfosi.

2. La cucina come arte
Messa giù così però sarebbe soltanto una roba da ingegneri. E allora arriva il salto concettuale. Se si vuole costruire un piatto che non solo funziona, ma che ha quella che Cannavacciuolo ha chiamato più volte in trasmissione “la cazzimma”, si deve fare qualcosa in più. Si deve raccontare una storia. In genere di se stessi, del proprio passato o della propria terra. L’assunto concettuale sarebbe la famosa frase di Joseph Beuys: Jeder Mensch kann Künstler sein, ogni uomo può essere un artista. Perché quello che garantisce il passaggio alla cucina come arte non è (solo) l’esecuzione ma è l’idea.
Cioè la smaterializzazione dell’elemento sensibile.  In un ristorante stellato non si pagano quelle cifre esorbitanti (in uno a due stelle Michelin ogni piatto sta sulle 45-50 euro mentre si raddoppia per un ristorante a 3 stelle) perché si ha fame. In un ristorante stellato si paga per lo spirito: non saziare il corpo ma l’anima.
Al di là della capacità tecnica di eseguire un piatto del genere, indubbiamente fuori dal comune, anche ammesso che si riuscisse a replicare quel piatto, si finirebbe per fare la figura del copista, perché il quid  sta altrove, nell’originalità della sua idea nativa.

Ecco, i The Jackal arrivano al cuore di questa logica. Può qualcosa che viene digerito, metabolizzato e fisicamente espulso affrancarsi dalla materialità? Può la cucina subire lo stesso processo avvenuto nel passaggio dalla pittura rappresentativa a quella concettuale? Oppure permane (sopra ogni altro canone) la logica binaria facebook del a me piace così?

Perché in fondo il piatto sarà pure tutto scriteriato, sbilanciato, fuori fuoco. Ma a me piace con tanto, ma tanto, peperoncino. Del resto, che ce ne fotte.


 

Matteo Sarlo è nato a Roma nel 1989, dove vive e lavora come Editor.
Nel 2018 ha pubblicato Pro und Contra. Anders e Kafka.
Ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana.
È fondatore di Globusmag.it

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