Nella proposta musicale del Festival di Sanremo 2019, il brano degli Zen Circus ricopre una funzione essenziale per comprendere il rapporto che la cosiddetta scena indie intrattiene con la kermesse della musica popolar-nazionale per definizione. Per un’interpretazione critica del brano, dovremmo fare riferimento a due livelli diversi: da un lato la posizione del brano nell’immaginario sanremese, dall’altro la posizione che il brano assume in relazione alla recente produzione musicale della band.

Partendo dalla prima prospettiva, quello degli Zen Circus è un fallimento: l’arrangiamento sofisticato e la struttura non consona di L’amore è una dittatura (che abolisce l’alternanza strofa ritornello e si pone come una cavalcata dall’enfasi distopica, la cui sessione ritmica si intensifica in maniera quasi epica) accompagna un flusso di parole che nel loro rincorrersi arduo e spregiudicato sono espressione tenace del disincanto e della confusione del presente. Ma Sanremo non è la scena del caos e della dispersione del senso, bensì l’occasione di dare forma e coerenza al caos: se questo è anche il limite dell’altro brano “indie” in gara, ovvero quello di Francesco Motta (Dov’è l’Italia?) che nomina l’Italia nel ritornello restando indeterminato e vago sui contenuti, proprio gli Zen Circus e Motta nella loro produzione recente erano stati invece in grado di bilanciare necessità di raccontare la catastrofe dei tempi bui senza scadere nel mero didascalismo.

Forse in questo, il brano degli Zen si distingue rispetto alla produzione di quello che negli ultimi album è diventato un referente essenziale dello stile della band, ovvero il Vasco Brondi delle Luci della centrale elettrica: come accade spesso, si tratta di un rapporto circolare, dal momento che l’esperienza musicale delle origini degli Zen ha ispirato la carriera musicale di Brondi, che però nel momento del successo ha capovolto la sua funzione diventando lui fonte di ispirazione per il rinnovamento stilistico e autoriale della band. Se tipico delle Luci è l’affresco di riferimenti, scorci e visioni della cupezza generazionale contemporanea, capace però di riscattare quella stessa cupezza attraverso una pratica di romantizzazione e lirizzazione (dimensione progressista perseguita negativamente, attraverso la trasfigurazione poetica della catastrofe), questa tecnica è alla base di molti brani degli Zen degli ultimi tre dischi, mentre è assente nell’oscurità soffocante di L’amore è una dittatura.

La scelta non è ingenua: dopo il successo degli Stato sociale dello scorso anno, che hanno ben compreso quale dovesse essere lo stile per lasciare un segno (gigionesco, ironico, giocoso, come è tipico da sempre della band bolognese), è come se gli Zen Circus avessero voluto puntare sul risvolto drammatico e claustrofobico, quando paradossalmente molte canzoni degli ultimi album avrebbero potuto riscuotere successo anche nel pubblico di Sanremo perché in linea con la proposta degli Stato sociale. Infatti, in tempi recenti spesso gli Zen Circus hanno proposto nel loro immaginario musicale delle vie di fuga, di speranze disperate capaci di redimere l’orrore del presente: il rifugio non era mai inquadrato nel ritorno alla naturalità primigenia della spontaneità ritmica (come è il caso dei Pan del diavolo, e a tal proposito Canzone contro la natura è indicativa), quanto invece in dimensioni sempre umane, come il passato della tradizione folklorica (L’anarchico e il generale, Vai vai vai). Altre volte l’accenno distopico era più esplicito e paradossalmente più assimilabile perché quasi “scherzoso” dovuto anche all’arrangiamento pop tenace: pensiamo al riferimento alla “terza guerra mondiale” che in maniera interessante torna spessissimo nella scena pop, rock e indie italiana degli ultimi anni, dal momento che la guerra potrebbe rendere tutto più chiaro, perché il senso diventerebbe concreto, sapremmo chi è il nemico e sapremmo cosa fare rispetto a questa condizione di “apocatastasi” (la fine che non finisce di finire) che invece ci costringe all’inazione e all’attesa indefinita della fine.

Soprattutto, pensiamo alla funzione redentiva che assume la memoria e la romantizzazione del passato, esattamente come in Vasco Brondi: nel walzer L’anima non conta, dove l’arpeggio ipnotico e la linea vocale sembrano riferirsi ai Marta sui tubi e il titolo è invece una sorta di citazione dei Ministri (del verso di Federico Dragogna di Diritto al tetto “l’anima alle bestie noi pensiamo con il pane”), è l’adolescenza che viene trasfigurata nella memoria in qualcosa di più bello di quanto possa essere realmente stato. Se “Il sole risorge ogni giorno e ogni giorno che passa diventa un ricordo”, allora la catastrofe può essere combattuta trasfigurandola in qualcosa di più bello nella memoria e nell’incanto lirico.

L’altra “via di fuga” che gli Zen promuovono dinanzi ai tempi bui del presente sono gli affetti e in maniera anche più specifica i legami familiari: ora, se nella poetica dei Ministri anche i rapporti intersoggettivi, gli affetti e gli amori finiscono contaminati dalla catastrofe economico-sociale esterna che si innerva nel profondo dell’esistenza sentimentale e psicologica, negli Zen Circus più “brondiani” di Fuoco in una stanza, lo struggimento nei confronti del ricordo di amici e parenti scomparsi diventa una bussola per orientarsi nel “panico” della vita, un panico che come attesta il brano Panico è dovuto all’incongruenza generazionale tra adolescenza ed età adulta, ma dal momento che “quando il panico arriva il mondo prenderà un senso”, il tono complessivo non è affatto drammatico ma “vitalistico”, positivo.

Insomma, c’è (seppure lontana e vaga) un’occasione di riscatto per quanto introspettiva e passiva, definita dal rifugio negli affetti e nella loro memoria, oppure dal rifugio nel ricordo di un passato solare e spensierato (Il mondo che vorrei), fino ad arrivare in questa dinamica alla comprensione dell’universo infantilistico come qualcosa di bello, come il suono sintetico che caratterizza Sono umano; ebbene, siamo agli antipodi rispetto allo xilofono ipnotico di L’amore è una dittatura, molto più vicina nel suo senso (oltretutto complesso e da decriptare) al senso di Viva: chiusura, isolamento, accenno di nichilismo. Lo xilofono e la ritmica cadenzata de L’amore è una dittatura non sono concepiti come tentativo di riparo dal presente catastrofico ma ne intensificano piuttosto il senso di smarrimento e di tragicità. Insomma, completamente scollegato dall’autentico spirito sanremese.

 

Alessandro Alfieri è saggista e critico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa di estetica dell’audiovisivo e cultura di massa. Tra le sue pubblicazioni Il cinismo dei media, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino e Lady Gaga. La seduzione del mostro.

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