In Italia la legge del 15 febbraio 1996, n. 66 “Norme contro la violenza sessuale” all’articolo 3 afferma: “(…) Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto (…).

A Philodiritto, il primo festival nazionale dedicato alla “pop filosofia della giustizia”, l’avv. Giulia Boccassi, coordinatrice della Commissione Pari Opportunità U.C.P.I. (Unione Camere Penali Italiane), è stata autrice di un intervento insieme con Angela Azzaro, caporedattrice de “Il Dubbio”, intorno alla “questione criminale”.
Sono stati vagliati i processi mediatici e i linciaggi pubblici che ancora oggi, in mezzo alle aporie di progressismo e femminismo, prendono a trasfigurare le vittime sino a farle, talvolta, morire colpevoli.

In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, abbiamo incontrato di nuovo l’avv. Giulia Boccassi per un contributo scientifico su una delle questioni centrali dell’onorevole società moderna.

 

I dati e le vicende parlano chiaro: una italiana su tre ha dichiarato che il personale sanitario a cui si è rivolta ha sconsigliato di sporgere denuncia, a differenza delle straniere che per il 63% hanno rivelato l’accadimento. Istat ritiene che queste ultime abbiano un tessuto sociale meno solido delle italiane per le quali denunciare sembrerebbe un alternativa al supporto della famiglia.
Dato che certo non si fatica a immaginare se si pensa che l’iter psichiatrico per elaborare la violenza ha durata minore rispetto al protrarsi dell’eventuale processo.

Perché una donna del secolo nuovo dovrebbe trovarsi nelle condizioni di preferire unicamente l’elaborazione terapeutica senza coadiuvarla alla procedura giuridica?

Posso dire che è certamente difficile affrontare un processo di questo tipo; durante la conferenza ho fatto l’esempio di due ragazzine vittime di un caso di cui io rappresentavo la parte civile. L’accusato è stato assolto sul presupposto di avere ammesso di aver fatto sesso con una delle due in modo consenziente; nonostante lui le abbia dato da bere, nonostante fossero minorenni, nonostante le abbia tenute in casa sua fino alle tre di notte. Nonostante questo, il giudice ha ritenuto che questo stato di loro alterazione non fosse percepibile e ha posto rilievo sul fatto che fossero perfettamente consenzienti.
Mi sono sempre relazionata con il padre della mia cliente, il quale non fa che ripetere di non credere più nella giustizia, che non è più nel suo interesse.
Sua figlia non sa nulla della sentenza, io, però, sono andata a rileggermela da sola, quello che ne veniva fuori era effettivamente straziante, il giudice aveva in buona sostanza fatto la descrizione di due facili scriteriate che sapevano perfettamente cosa stessero rischiando; conoscevano il soggetto, pertanto, secondo la sua opinione, sarebbe bastato solo un occhio di riguardo nel non cacciarsi in spiacevoli situazioni.
Adesso ho preparato l’appello per il pubblico ministero, non sono riuscita purtroppo a trovare la GHB, quella che viene di solito chiamata la “droga dello stupro”, conosciuta anche come “ecstasy liquida”. L’effetto scompare dopo poche ore ma i suoi effetti si elevano alla potenza fino alla completa perdita dei sensi e, quel che è più sorprendente è che non ne rimane traccia dopo 24 ore: arco temporale in cui, nel caso specifico, è stato denunciato il fatto.

Si è mai verificato il caso in cui la droga rappresentasse un’attenuante?

Non ovviamente quando si estorce il consenso, e in questo caso si può provare a dimostrarlo. La mia cliente è in questa casa e, non appena si rende conto di essere nel letto dell’uomo, inizia a chiamare di notte prima la sorella, poi il fidanzato della sorella e infine la migliore amica; ovviamente questo non è stato ritenuto sufficiente. Come d’altronde il fatto che alle ragazze fosse stato chiesto persino il marchio della birra e le bottiglie descritte e rinvenute nelle stesse posizioni che riferivano, in casa dell’imputato.
Una cosa vorrei evidenziare: lo stesso padre che mi scrisse di non credere nella giustizia, tempo dopo, mi inviò una mail dicendo di non essersi pentito di aver denunciato nonostante non fossimo arrivati ad alcuna risoluzione: disse che era felice per sua figlia.

Denunciare a ogni costo?

Quell’uomo riteneva di aver difeso sua figlia, perché la ragazza sapeva che l’imputato era stato processato. Lasciare andare, a mio modo di vedere, nonostante mi renda conto perfettamente che sia un doppio colpo e una seconda violenza qualora non si giungesse a risoluzione del caso, è una mancata azione a cui non corrisponderà mai una reazione, trovo che bisogna ancora fidarsi della giustizia.

E difenderebbe chiunque e comunque?

Nei processi non ho una pregiudizialità di assistenza, quindi non scelgo se difendere solo gli uomini o solo le donne, faccio l’avvocato e basta. Ovvio che posso scegliere se occuparmi di un processo piuttosto che di un altro, posso scegliere di difendere tizio e non difendere caio anche sulla base dell’antipatia ma non ho una pregiudiziale per cui io non difenderei mai il maiale, prima di tutto perché io non lo so se è il maiale.
Il problema reale è che questi sono processi molto particolari perché a differenza di un furto, di una rapina o di un omicidio, dove un principio di prova o un testimone ci può essere, qui non c’è nella quasi totalità dei casi e quindi il filo è sottile e finiscono generalmente al di là di ogni ragionevole dubbio.

Allora il tribunale amministra la giustizia e a fallire è l’etica.

Io non credo che sia così, la mia esperienza è abbastanza fortunata da questo punto di vista, se si entra in processo e si ascoltano entrambe le parti, il giudice mantiene un atteggiamento abbastanza neutro, non si manifesta né pro vittima né pro imputato, analogalmente come succede in altri processi.
È chiaro che, poiché la prova è più difficile da raggiungere e le conseguenze sono molto gravi, condannare è una responsabilità che implica una annosa riflessione: ma questa è una regola che vale in generale. Si dice “poca prova poca pena” quando un caso è banale e il giudizio entra in una nebulosa senza conferme ma in questo caso non possono farlo: non si possono dare sei mesi a uno stupro, devono dare 5 anni, con le conseguenze che ne vengono. In dibattimento la pena parte dai 4 anni per lo stupro, per il tentato stupro dipende dalle modalità e dalle condizioni, perché se di minima rilevanza si possono applicare pene più basse…

Qual è un tentato stupro di minima rilevanza se gli atti sessuali sono stati tutti equiparati?

Poiché lo sono tutti gli atti sessuali – mentre prima si poteva distinguere tra stupro, violenza carnale e atti di libidine – la condanna è parametrata a meno che non ci sia evidenza. Ho affrontato processi in cui le condanne variavano in base all’anatomia maschile, o sul fatto che ci fosse stata o no penetrazione. Ora, dopo questo balzo di civiltà, non esaminiamo più determinate questioni per cui anche mettere la mano sul sedere, senza esplicito consenso, può essere considerata una violenza sessuale. È ovvio che non si può condannare una “mano morta” a 5 anni di reclusione, quindi la minore rilevanza è rappresentata da tutte le fattispecie di questo tipo.
Nei casi più gravi, invece, si arriva alla preclusione alla sospensione della pena per le misure alternative. Le sanzioni ci sono e sono pesantissime.

Vittime e uniche testimoni. È la condizione in cui si trova la maggior parte delle donne che ha subito un abuso sessuale. Senza contare che in sede di processo la vittima testimonia sotto giuramento mentre all’imputato è concessa la libertà di costruirsi la migliore delle strategie difensive.
Come convincerebbe a denunciare?

Il problema è che i reati di violenza sessuale sono uguali agli altri per cui non hanno una corsia preferenziale, non hanno nulla. Bisogna credere nel nostro sistema. Non c’è altra strada, se noi non crediamo nella giustizia abbiamo tolto uno dei pilastri della democrazia.

E dov’è che si inceppa il meccanismo del sistema?

Nelle indagini. Ho concluso questo caso che per me è lampante, avendo un pubblico ministero pessimo, che ha fatto una requisitoria pessima e ha obbligato me a impersonare il suo ruolo. Il caso (ndr. Lo stesso reato viene esposto nelle risposte precedenti) è successo nel luglio del 2016, il processo è finito in abbreviato due giorni dopo.
Il pubblico ministero ha sequestrato il materiale, si è recato nell’alloggio, ha compiuto la serie di indagini nell’immediatezza.
La mia cliente era in possesso del referto medico effettuato a un giorno dall’episodio, che non è stato violento, bensì consensuale: il referto mostrava che la vittima era vergine, per cui hanno accertato che fosse il primo rapporto. Ad agosto, era già tutto concluso.
Trattandosi di minorenni, doveva sentirle tramite incidente probatorio, non hanno chiamato la psichiatra trattandosi di minori comunque in grado di relazionarsi.
A maggio dell’anno dopo brancolavano ancora nell’indecisione, li ho sollecitati mettendoli di fronte a un bivio: o avrebbero deciso di credere alla ragazza facendo in modo di bloccare l’imputato, oppure avrebbero dovuto archiviare il caso. Ma almeno mettere un punto. Perché questo deve essere fatto
Le ragazze avevano confermato la stessa versione, sentite singolarmente. Il processo si è aperto a marzo dell’anno dopo ed è stato rinviato a luglio. Due anni. Per fare niente. Nessuna indagine.
D’altro canto i pubblici ministeri, deputati a occuparsi di questo tipo di reati hanno annoverato nella catasta di fascicoli anche tantissime bufale: reati inventati tra ex fidanzati, ex conviventi, talvolta amanti; il rischio è sempre di finire dalla parte di quello che ne fa una torquemada e procede a spada tratta: la sofferenza vissuta reale esiste, ma spesse volte non è distinguibile da quella apparente e interessata. Per cui mi rendo conto che l’occhio fatica a distinguere ma è proprio affinando sensibilità e esperienza che si può indagare sulla veridicità di un volto e scandagliare le dinamiche mentali.

Sarebbe a dire?

Questi PM hanno trent’anni, è riconoscibilissimo in loro l’accecamento del sacro furore. Molti potrebbero essere miei figli; è certo che il sistema deve essere svecchiato, la legge ha il passo del tempo dopotutto, ma ogni ruolo o condizione ha bisogno del proprio tempo. Sono una persona moderata e conciliante, oggi, vent’anni fa ero una iena feroce, urlavo e mi scagliavo contro qualsiasi cosa: ora la mia chiave di lettura è un’altra ma non è nient’altro che la vita ad avermi portato a questo.
Entrare nelle loro stanze è disarmante, riempite di fascicoli su fasce deboli, stagnanti sulla scrivania, quando potenzialmente potrebbero contenere, in mezzo a quelle che possono essere un centinaio di bufale, il caso di una potenziale ragazza che si suicida perché non viene creduta.
Io non vivrei. Io se ho un dubbio la notte non dormo.

Le è mai capitato di sconsigliare a una cliente la denuncia?

Mai. Anzi, spesso vengono che hanno già fatto la denuncia e questo si rivela un problema grandissimo. Perché andare subito dalle forze dell’ordine può pregiudicare, loro sono chiamati a verbalizzare come ritengono, non è la riproduzione testuale di ciò che uno dice. Anche perché la maggior parte delle volte la vittima si rivolge alla caserma dei Carabinieri più vicina, non pensa che la questura abbia un centro anti violenza con i protocolli di cui necessiterebbe. E così la denuncia prende una strada che molto spesso neanche gli appartiene. Invece un avvocato con esperienza fa una querela mettendo insieme i dati che ha, senza interpretazione.

Anche senza evidenza di prove? Qual è l’iter in questo caso?

Il legale prepara il racconto andando a ricercare i possibili riscontri. La maggior parte delle volte il reato di violenza non ne ha, ma si possono ricavare da altro: rapporti precedenti, elementi esterni, contatti telefonici, altri teste che hanno visto parlare i due coinvolti: certo, non c’è testimone oculare.
Ma se rinunciassimo a denunciare solo perché non ci sono le prove allora i processi non partirebbero mai. Poi ci sono casi lampanti: ho seguito un lunghissimo processo in cui una donna ha denunciato una violenza reiterata ma era lei stessa a recarsi al Motel con la sua macchina, da sola, non è stata acquisita alcuna prova sul fatto che il mio cliente si recasse in quel Motel regolarmente; raramente una donna dopo aver subito un stupro intende reiterarlo recandosi autonomamente nel luogo dove si è consumata la violenza. La varietà è infinita

Certo questo è un caso inverso. All’inverso non si parla mai: nel caso delle donne che accusano ingiustamente gli uomini qual è la percentuale?

È abbastanza alta ed è un dato negativo perché pregiudica quelle che hanno subito davvero violenza. È un comportamento molto frequente, soprattutto in famiglia, strumentalizzando la questione della separazione; capiscono bene che una persona che è già denunciata è in una posizione di inferiorità processuale, si deve difendere, deve investire ulteriori soldi, perde il più delle volte l’affidamento dei figli: la realtà è molto varia e complicata e non esce mai all’esterno. Perché se uno è un bravo avvocato non la fa uscire. Io non vado a dare le notizie, mi interessa la tutela del cliente, non il mio nome sul giornale.
La triturazione mediatica non permette che di fraintendere i fatti. Un giorno mi chiamò una giornalista de’ la Stampa per un caso che stavo trattando: sentivo la delusione permeare le domande e l’articolo che scrisse ne fu la dimostrazione diretta, addirittura aveva le sembianze di un altro caso.
Mi rendo conto che ormai tutto è solo quello che viene comunicato.

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