Bandersnatch è il titolo della ultima produzione Black Mirror, uscita per la piattaforma on demand Netflix durante il recente periodo natalizio. L’accoglienza del “film” (tornerò sull’inadeguatezza di questa definizione più avanti) in Italia è stata – forse con l’unica, ma eminente eccezione del bel pezzo di Pietro Montani per Fatamorgana – in generale molto critica, sia tra gli addetti ai lavori che tra gli utenti. Vorrei in questo mio pezzo, dopo aver riportato brevemente il plot e i riferimenti di questo particolarissimo prodotto filmico, descrivere quello che ritengo essere il portato fortemente innovativo, e i tratti propriamente medialfilosofici del lavoro in questione. Da ultimo, vorrei analizzare le critiche più diffuse che mi è capitato di leggere su questo lavoro, nella convinzione, che esse non colgano il punto focale di Bandersnatch.

Bandersnatch: il plot

Il plot di Bandersnatch è relativamente semplice: Inghilterra, anni ’80. Un ragazzo con evidenti disturbi psicologici (presumibilmente causati dal trauma della perdita della madre, in età infantile, a causa di un suo capriccio: il bambino fa perdere un treno alla genitrice, che è costretta a prendere quello successivo. Suddetto treno deraglia, la madre muore nell’incidente), sogna di diventare uno sviluppatore di videogiochi. In particolare, il suo desiderio è di trarre un videogioco dal libro-game Bandersnatch, trovato tra gli oggetti della madre.

Per coloro che non conoscessero il concetto di “libri-game”: si tratta di un genere che tra la metà degli anni ‘80 e la metà degli anni ‘90 ebbe un discreto successo, e consisteva in libri che non andavano letti dalla prima all’ultima pagina, ma che in alcuni punti della narrazione obbligavano il lettore a fare una scelta, che rimandava a un ramo della storia che a sua volta continuava a una certa pagina, e che era diverso – ovviamente – da quello che si sarebbe intrapreso facendo la scelta opposta. Il genere di riferimento dei libri game era il fantasy (il successo mondiale coevo di Dungeons & Dragons ne influenzò sicuramente la produzione), e in dimensione minore la fantascienza. Per questo, spesso, al racconto del libro si affiancava la creazione di una scheda-personaggio, e molte scelte venivano prese anche con una certa dose di alea, tramite un tiro di dadi (anche se questo non è il caso del libro di cui si parla nell’episodio di Black Mirror). Di solito le scelte erano del tipo: “incontri un uomo misterioso che ti dice di seguirlo”; se lo segui vai a pagina 18, se non lo segui vai a pagina 123.

Basandosi su un libro di questo tipo, il protagonista di Bandersnatch vuole creare un videogioco a bivi, in cui l’esperienza del giocatore è basata sulle scelte fatte in precedenza: il plot presentato, di per sé, è tutto qui.

Bandersnatch: la struttura è/e la storia

Ho parlato fino a questo punto di “plot” e non di “storia” per un motivo preciso, che è stato frainteso dalla maggior parte dei critici, a mio parere. Se il plot, come visto, è semplice, la storia di Bandersnatch è invece estremamente complessa, e dipende dalla struttura della narrazione. Il prodotto di cui stiamo parlando si struttura, infatti, come una narrazione interattiva: lo spettatore, in alcuni punti della storia, deve prendere delle scelte che (tranne alcune – rare – decisioni minori, per lo più indifferenti) influenzeranno in maniera decisiva la trama. Sta allo spettatore decidere, a partire dal plot, la storia. Se il protagonista porterà a termine il gioco o meno, come lo porterà a termine, se riuscirà a mantenere la sua sanità mentale o meno, se diventerà un omicida o morirà (ed altre alternative) sono scelte che deve prendere lo spettatore, tramite una rapida pressione di un tasto sul telecomando (si ha un tempo predeterminato per prendere la decisione, dopo di cui, se lo spettatore non ha agito, il sistema prenderà automaticamente la prima alternativa tra le due proposte). Il punto centrale di Bandersnatch è esattamente questo: se il plot è fisso, la storia è invece scelta dal singolo spettatore, ed è inestricabilmente commessa alle sue scelte. A sua volta, questa struttura fa il paio con quella narrata: anche nel libro e nel videogioco oggetto di Bandersnatch, come detto, si tratta di narrazioni multiple, basate su scelte da parte degli utenti che influenzano la storia. Credo che uno dei punti di forza principali di questa narrazione sia per l’appunto questo: una assoluta consustanzialità di forma e contenuto. Se non avesse quella forma, la storia di Bandersnatch non sarebbe narrabile, ne sarebbe narrabile solo il plot. Oppure, andrebbero prodotte tante versioni, episodi, di questa narrazione, quante sono le linee evolutive presentate. Questo però, non lo differenzia né dagli altri film interattivi prodotti in passato (ce ne sono stati) né dal filone di videogiochi basato sulla scelta che va da Heavy Rain a Become Human, da un lato, e che investe tutta la produzione della Telltales Game, dall’altro.

Il punto innovativo, invece, qui, è che si tratta di un tema, quello – relativamente classico – delle sliding doors, che viene trattato con un apparato mediale del tutto adeguato, aderente al contenuto: Bandersnatch è un libro che funziona per alternative, che viene trasposto in un videogioco che funziona per alternative, che viene trasposto in un prodotto filmico che funziona per alternative. È questo triplice livello di intermedialità a rendere unico il prodotto di cui stiamo parlando. “Unico” in un senso duplice: sia perché nuovo, in quanto – rispetto ai prodotti filmici e ai videogames basati su scelte – si presenta come l’unica narrazione (per lo meno tra quelle a me note) in cui c’è una corrispondenza totale tra forma e contenuto, sia perché destinato a rimanere un unicum, ossia qualcosa che non può essere ripetuto. Se, infatti, il contenuto narrativo della produzione non fosse quello che è, come detto, avremmo solo una storia – classica – di cui scegliamo le alternative.

Per questo motivo, credo, l’esperimento di Bandersnatch non troverà seguito in Black Mirror, né riuscirà ad imporsi a livello di forma narrativa alternativa rispetto al film classico: perché esso funziona solo con quel preciso tipo di contenuto narrativo, e con nessun altro. Un altro tipo di narrazione con la stessa struttura rischia di rivelare tutti i limiti del sistema di scelta multipla, che verrebbe applicato apoditticamente a una narrazione che, se pensata come narrazione lineare, semplicemente non ne ha bisogno.

Questo è anche il motivo per cui le critiche che sostengono essere il multiple-choice un qualcosa di estrinseco, come lo furono gli occhiali per il 3D al cinema (esperimento che fallì perché applicato dall’esterno a narrazioni intrinsecamente pensate in maniera bidimensionale) non colgono la peculiarità centrale di Bandersnatch. Queste critiche possono valere per un altro film, che aggancia il sistema di scelta multipla a un contenuto qualsiasi, ma non a Bandersnatch, in cui il livello narrativo e la struttura della narrazione sono inscindibili.

Livelli di intermedialità e livelli narrativi

È la compresenza dei tre livelli di intermedialità presentati a rendere irripetibile Bandersnatch: se si toglie il livello del libro e quello del videogioco, sparisce il motivo – anche – di questo tipo di narrazione. Per questo, per Bandersnatch, non si può utilizzare, se non per comodità, la definizione di “film”: perché del film non ha la struttura narrativa, e perché, rispetto al film, anche al “classico” film multimediale, la forma narrativa basata sull’impianto di scelta è fondata sull’abdicazione del concetto di autorialità. Il film ha un autore, Bandersnatch no (o meglio, ne ha molti, e uno di questi sei tu). Per questo, in due dei possibili finali, e in un punto specifico della narrazione, in cui si parla esplicitamente di Netflix, diventa chiaro che siamo in un film: proprio per spezzare l’illusione narrativa che ci vorrebbe convinti che stiamo guardando un film. Non siamo passivi, bensì attivi nella fruizione. Per questo, a livello narrativo, il medium intermedio, il videogioco, è fondamentale. In generale, il rispecchiamento forma-contenuto funzionerebbe anche solo se venisse narrata la storia del libro-game. La presenza del videogame come elemento di mise en abime è però fondamentale per comprendere il meccanismo narrativo di cui siamo parte: siamo di fronte a qualcosa che è più vicino alla partecipazione multimediale a cui ci obbliga il videogioco, che alla fruizione passiva che ci propone il film. Per quanto, però, non siamo neanche in un videogioco, perché siamo su Netflix e su Black Mirror. Cercherò di seguito di spiegare perché questi due aspetti sono centrali, e perché Bandersnatch ha suscitato così tante reazioni irritate. Da ultimo, ci sono però due ulteriori elementi che vanno elencati, per comprendere la distanza, e l’incommensarabilità, tra Bandersnatch e un film (elementi che ha in comune con altri prodotti che hanno la medesima struttura): il primo è che l’esperienza non è collettivizzabile, ossia che la fruizione, costringendo l’utente a prendere una decisione, lo isola dagli altri, che – verosimilmente – nella stessa situazione vorrebbero prenderne altre. Per questo la fruizione è costretta a restare singola: un tipo di prodotto del genere non può essere visto in gruppo, o al cinema. L’unica soluzione, nel caso del cinema, sarebbe una sorta di televoto in tempo reale che reagisse alla votazione maggioranza tramite dei telecomandi sincronizzati, ma questo toglierebbe all’esperienza in carattere dell’individualità, che invece, nella narrativa rappresentata è consustanziale, a livello di contenuto. Il secondo è che non è pensabile di guardare Bandersnatch in una versione “pirata”, a meno che questa non preveda una tecnologia che permetta l’utilizzo del sistema di scelta. Se, infatti, questo sistema non è presente, siamo allora costretti a vedere la storia decisa da un altro, e il complesso intreccio di narrazione e struttura narrativa fallisce: anche in questo, Bandersnatch non è duplicabile.

Perché Bandersnatch dà fastidio: uno spiazzamento continuo

In molti commenti spontanei, post, recensioni ho spesso notato una certa irritazione nei confronti di Bandersnatch, di cui credo che la causa principale sia la seguente: gli spettatori si sono trovati tra le mani una sorta di videogioco laddove si aspettavano un film, o meglio una serie. Sono stati costretti ad agire, laddove avrebbero voluto semplicemente fruire. La piattaforma di streaming li ha ingannati, manovrati, esattamente come fa col protagonista. Sicuramente questo è un primo livello che ha creato spiazzamento nello spettatore.

Il secondo livello di irritazione è dovuto al fatto che la narrazione, pur ponendosi come basata sulla scelta, costringe lo spettatore a scegliere entro alternative ben definite. La scelta, insomma, non è reale. Si soffoca in una serie di scelte che non fanno altro che creare situazioni angoscianti, in cui ci sentiamo sempre più intrappolati, come il protagonista nel suo mondo psicotico. In realtà, il fatto che le alternative non siano reali, fa parte della narrazione, ne è assolutamente inscindibile: sia il libro-game che il videogame sono, infatti, basati su alternative che non sono tali, ma che sono pre-scritte, pre-programmate per essere lette e giocate. Fa parte, se è per questo, anche della vita: quello che al momento della scelta ci si pone come alternativa, post-festum si configura come necessità. Ma anche in Bandersnatch è così: solo DOPO aver preso la scelta, possiamo criticare l’alternativa come forzata, ma al momento della scelta essa è fatta per sembrarci l’unica, la più sensata, o – semplicemente – la più NOSTRA, tra tutte le reazioni possibili. Pretendere da Bandersnatch che ci dia alternative “reali”, è pretendere una irreversibilità che nessun prodotto multimediale offre, né un libro, né un film, né una canzone registrata, né un videogame. Il fatto che questo rilievo, a ben vedere assurdo, però sia tra i più comuni tra quelli fatti a questo prodotto è indice di qualcosa di rilevante: proprio laddove l’utente viene strappato alla sua passività egli comincia a sentire quanto possa essere opprimente la libertà, anch’essa sempre relativa, e contingente.

Terzo motivo di irritazione, forse sintesi dei primi due: Bandersnatch è un prodotto Black Mirror. Fin dall’inizio, la serie si è caratterizzata per un ‘gesto’ narrativo specifico: ha rinunciato al suo statuto di serie (non ha attori ricorrenti, né una storia unica) ponendosi come antologia: ogni episodio è in sé concluso, e l’unico filo conduttore è il fatto che vengano mostrati, in un futuro prossimo, aspetti (nella stragrande maggioranza degli episodi) distopici dello sviluppo delle tecnologie, in un futuro prossimo. Bandersnatch è l’unico episodio che si situa, nella serie, nel passato. Già in questo punto, delude le aspettative. In seconda battuta, non mostra alcuna critica diretta ai media, quanto il percorso di ingresso nella psicosi del protagonista. In questo, l’utente medio di Black Mirror trova sicuramente un motivo di delusione. Ma è realmente così?

A ben vedere le cose stanno altrimenti. È vero che la narrazione è situata nel passato, ma il coinvolgimento dello spettatore, anche nella storia (ad esempio laddove ci viene chiesto di dialogare con il protagonista, cercando di spiegargli cos’è Netflix), in realtà sfasa il piano temporale, proiettando la narrazione nel presente. Inoltre, contrariamente a quanto si possa credere in prima battuta, la critica alla tecnologia è sempre presente, solo che non è tema della narrazione, ma parte della struttura. Quella che viene criticata non è la tecnologia del videogame-Bandersnatch, che il protagonista vorrebbe sviluppare, ma il rapporto dell’utente con il medium. Siamo criticati noi, in quanto fruitori di Netflix, in quanto pubblico, che – con le sue scelte – influenza le narrazioni, i comportamenti, i trend delle storie. In uno dei finali possibili, il protagonista, di fronte alla sua psichiatra, si chiede se egli stesso non sia parte di una narrazione. La psichiatra chiede, allora, se non crede che una narrazione fatta per altri non debba essere più movimentata. In quel momento, in maniera del tutto assurda, comincia una scena di lotta e arti marziali tra la psichiatra e il paziente-protagonista, su cui si conclude uno dei possibili finali. In questa scena è racchiusa la critica ai media di questo episodio di Black Mirror: siamo noi, questa volta, gli oggetti della critica, coloro che scelgono la direzione delle narrazioni, che le rendono assurde, piatte, banali o semplicemente inverosimili.

In qualche modo, credo, lo spettatore percepisce questa critica a lui rivolta, e ne è disturbato. L’ultima delle critiche che mi è capitato di leggere è quella che Bandersnatch non rappresenterebbe una novità, perché qualcosa di già fatto, già visto.

In questo caso, credo Immanuel Kant abbia già risposto a suddetta obiezione meglio di quanto non possa fare io, o qualcun altro. Rivolgendosi, alla sua epoca, in maniera ironica a un suo critico, che aveva – mi sia permessa una generalizzazione – sostenuto che in fondo il criticismo kantiano non diceva nulla di nuovo, Kant pubblica uno scritto dal titolo emblematico: Su una scoperta secondo la quale ogni nuova critica della ragion pura sarebbe resa superflua da una più antica, che comincia con alcune righe con cui mi piacerebbe chiudere queste mie riflessioni:

«Il Signor Eberhard ha fatto la scoperta, come annuncia il suo “Philosophisches Magazin” (volume primo, p. 289), che “la filosofia leibniziana contiene, al pari di quella nuova, una critica della ragione; e nel contempo essa introduce, ciò nonostante, un dogmatismo fondato su un’esatta analisi della facoltà di conoscere; di conseguenza, essa racchiude in sé tutto ciò che di vero è nella filosofia recente, e altro ancora, in virtù di un’estensione del territorio dell’intelletto”. Ebbene, come sia potuto accadere che non si sia scorto già da un bel pezzo questa cosa nella filosofia del grande uomo, e in sua figlia, la filosofia wolffiana, egli in verità non lo spiega; ma quante scoperte ritenute nuove sono viste oggi da alcuni esegeti maldestri con assoluta chiarezza già presenti negli antichi, non senza che ad essi sia stato prima indicato che cosa vi devono vedere!».

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