Dario Brunori, in arte Brunori Sas, è emerso come una delle voci più interessanti della nuova generazione cantautoriale. Lasciando da parte dimensioni valutative relative alla qualità della scrittura, quello che merita di essere osservata più da vicino è la ragione stessa che ha portato il giovane cantautore calabrese ad arrivare molto più in là rispetto ad altri: essere in sintonia con il sentire del proprio tempo. Perchè questo è, in fin dei conti, il segreto ultimo della musica pop, vale a dire rappresentare il presente, così come viene vissuto (spesso angosciosamente, perché il vivere è complicato, imprevedibile) da tutti. La letterarietà o il valore culturale arriva dopo, quando tutto è sedimentato, e serve innanzitutto a riconoscere il valore dell’immaginario costruito da una (o più) generazioni precedenti.

Tornando a Brunori, allora, il tratto essenziale che lo contraddistingue è l’essere nel proprio tempo. La stessa scelta del nome d’arte Sas (società accomandita semplice) è il sintomo evidente di un’adesione radicale al presente e al problema che maggiormente assilla le nuove generazioni, vale a dire il lavoro o, meglio, l’instabilità del lavoro. Qui ci sarebbe da aprire una parentesi sulla dialettica del lavoro certo (delle generazioni precedenti) come baluardo all’imprevedibilità intrinseca del vivere che viene meno oggi, aggiungendo insicurezza materiale a insicurezza esistenziale. Ma sarebbe un’altra storia, lontano dal pop e dalle canzoni.
Nella produzione di Brunori c’è in particolare una canzone dell’ultimo album A casa tutto bene (2017) che spicca per significatività e merita di essere osservata più da vicino: La vita pensata.

La vita pensata
Assecondando un’inclinazione che lo porta a utilizzare spesso una lingua appesantita di concettualismo rispetto a un’espressionismo descrittivo meno retorico, Brunori si avventura in una sorta di ammissione di incapacità esistenziale che definisce in qualche mondo la (sua) comprensione del vivere (e quindi, facendo valere l’assunto di portavoce del proprio tempo, delle generazioni che si riconoscono in lui ascoltandolo):

Ma l’ho capito finalmente / che io del mondo non c’ho capito niente
Che voglio fare il furbo e invece sono / un fesso come sempre

Me lo dicevi anche tu: / “la vita va vissuta senza trovarci un senso”
Me lo dicevi anche tu:  / “la vita va vissuta”, e invece io la penso
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La contrapposizione è abbastanza chiara: da un lato, c’è il mondo che richiede alcune capacità specifiche (la furbizia, la scaltrezza, il disinteresse), dall’altro, c’è la vita che non si adatta a queste dimensioni. Questa mancanza di adattamento è tuttavia particolare. Non è un’assenza di comprensione reale, perché di come giri il mondo il protagonista della canzone è consapevole. Si tratta proprio di un limite caratteriale, costitutivo, come se ci fosse un muro invisibile che debba essere superato per entrare nell’agone del vivere e invece si rimane lì, fermi, davanti al muro che ostacola ogni movimento di uscita. In questo sostare, inizialmente forzato, nel chiuso del proprio universo immaginifico si genera la convinzione che il vivere la vita si trovi nel pensiero della vita, una sorta di specchio essenzializzato e neutralizzato. Il valore di quello che è si racchiude nella pura autenticità di quello che dovrebbe essere rispetto alla realtà e che semplicemente è nel proprio pensiero.

 

La rinuncia alla traccia
Fin qui tutto sommato si potrebbe pensare che si tratti di una canzone intimistica che rispecchia il sentire introspettivo di chi l’ha scritta e di chi si sente a disagio nel mondo. E invece no. C’è un aspetto generazionale, quasi epocale, decisivo che merita di essere posto in evidenza (e, per quanto possibile, riflettuto).
Il disagio delle (nuove) generazione nei confronti del mondo sul quale si affacciano è un dato in sé abbastanza comune che si ripete quasi come una costante. Quindi, va bene, fin qui nulla di nuovo sotto al sole, direbbe il cantore biblico. La realtà è deteriore rispetto a quello che dovrebbe essere e quando ci si affaccia su di essa si paga lo scotto dell’esperire tale deterioramento.

A cambiare il quadro teorico e a renderlo verace è la risposta/la soluzione a questa constatazione. Senza imbarcarsi in approfondimenti storici, la soluzione a questo dilemma nei secoli precedenti è stata fondamentalmente di due tipi: culturale o politica. Basti pensare a questo proposito all’eroe romantico, così come emerge a cavallo tra ‘700 e ‘800. Lì le due vie sono ben definite (e lo sono state anche prima e dopo, allo stesso modo): la realtà che non corrisponde al sentire si modifica con la rivoluzione politica (l’ultima generazione a proclamare questa visione è stata quella del ’68). L’agire è esplicito, immediato, cruento, evidente. Anche nel fallimento, nella morte, nella distruzione dell’idea, rimane l’azione compiuta. Rimane la traccia.

L’altra grande via di aggiramento del reale è l’elaborazione culturale. Qui, come esempio, è sufficiente immaginare la grande parabola degli scrittori e degli artisti dell’età romantica o del primo novecento. Tutti o quasi degli inetti che non sapevano vivere. E infatti la vita non la vivevano, ma la scrivevano, la dipingevano, la creavano in un universo ulteriore. Anche qui, con la stessa prospetticità della rivoluzione, è la traccia a essere il tratto distintivo, il sedimento di quello che non è stato, ma ha provato a essere. Tracce su tracce.
Qui arriva l’elemento decisivo. Brunori e il tempo che in esso si esprime non ha neanche la forza di arrivare alla traccia. Rimane solamente sulla soglia, nell’ambito del pensato. Sì, c’era da qualche parte una soluzione, l’aveva il padre, la generazione precedente, quella che ancora aveva dimestichezza con la creazione di segni, di tentativi, di tracce. Ora però è andata dispersa. Non c’è più. La vita rimane un cosmo ricchissimo di tutto, pieno di pensieri e sentimenti, di comprensione di sè e dell’altro, che è completa in se stessa. Si autocompiace? Si autolimita? Ha semplicemente paura? Le ipotesi secondo cui declinare la situazione sono molteplici, ovviamente. Rimane come tratto comune la sottrazione: la vita pensata, non agìta. La vita pensata come soluzione scelta per scendere a patti con il disagio del reale. Pensare di lasciare traccia è un proiettarsi al di là troppo ardito, la stessa produzione culturale ha perso la capacità di richiamo, quella politica neanche a dirlo. Visto che tanto bisogna viverla, il miglior modo rimane quella di pensarla la vita, senza avventurarsi ulteriormente.

 

La dialettica dello spazio
C’è un ultimo aspetto che merita di essere menzionato ed è la contrapposizione tra spazio aperto (“vado al mare”) e spazio chiuso (“casa”,”ufficio”) che serve come strumento semantico per delineare il passaggio all’accettazione (consapevole?) della vita pensata.
All’inizio la dicotomia vive, nutrendosi della vettorialità classica che ha nell’aperto la dimensione di positività (l’apertura del mare) e nel chiuso quella di negatività (il riferimento alla chiave che impedisce di uscire, alla prigione come vincolo subito). La dimensione interessante è che, nello sviluppo, questi vettori si rovesciano. Quando si prende atto che la vita è pensata e il pensarla non è una prigionia, ma la risposta adeguata al mondo che mette a disagio, ecco allora che lo spazio chiuso diventa la forma perfetta della riflessione, si ri-torna a casa, in quello che è lo spazio dai contorni rassicuranti, definiti, conclusi.
Il mondo aperto diventa allora un mondo chiuso. L’estroflessione piena di sedimenti personali del digitale è percepita come una dimensione altra di difficile dimestichezza, una sorta di prigione inconsapevole. A contrapporsi a essa è la certezza di uno spazio dai contorni definiti (anche affettivi), dove la vita può serenamente essere vissuta nel pensiero.

 

Credit foto: pagina Facebook Brunori Sas

Salvatore Patriarca

Giornalista, filosofo, imprenditore. Il suo ultimo libro è Il digitale quotidiano (Castelvecchi).

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