Buttarsi a capofitto in Fortnite è meno facile di quel che si pensi. E “buttarsi a capofitto” è immagine nient’affatto peregrina, dato che al gioco si accede gettandosi, col proprio avatar, da un bus che viaggia nei cieli trasportato da una mongolfiera. Fortnite, videogioco online targato Epic Games e giunto ormai alla sua ottava stagione, è un vero e proprio fenomeno socio-culturale. Basti pensare che, ad oggi, giocano a Fortnite circa duecento milioni di ragazzi e ragazze da tutto il mondo. E si tratta di un videogame rilasciato nel settembre 2017, un anno e mezzo fa.

Un successo comprensibile date la possibilità di accesso al gioco da ogni piattaforma (computer, smartphone, X-Box, Playstation, ecc.), la gratuità del gioco e un’estetica accattivante fatta di colori sgargianti e personaggi impegnati in improbabili danze. Tutto ciò mentre uno ammazza l’altro. Un fenomeno che, tra l’altro, ha anche aperto possibilità di guadagno a giovani utenti di YouTube o Twitch le cui partite in streming macinano centinaia di migliaia di views. È in questo modo che il ventottenne Tyler Blevins, alias Ninja, campionissimo di Fortnite, è riuscito a fatturare dieci milioni di dollari in un anno. E che dire del misterioso Dj Marshmello, riuscito nell’intento di organizzare un live Dj set interamente all’interno del gioco, raggiungendo la vertiginosa cifra di dieci milioni di spettatori avatar.

Insomma, Fortnite non può essere liquidato come l’ennesimo “sparatutto”, uno fra i tanti. Si tratta di un fenomeno di costume, di un’ossessione generazionale. Perché? Le risposte sono rintracciabili solo se si entra all’interno del videogame, indagandone peculiarità e significato profondo e soprattutto facendone esperienza diretta. Il primo giorno su Fortnite è assolutamente disorientante: il nuovo utente, completamente ignaro, si aspetterebbe un più o meno classico MMORPG. Il Massive(ly) Multiplayer Online Role-Playing Game è quel tipo di videogioco online che prevede e permette la scelta di un personaggio, con un ruolo, con determinate capacità, armi, poteri, con una certa qualifica, specializzazione, “missione”, e con la possibilità di aumentare progressivamente la propria forza e migliorare le proprie skills di gioco. Certo, le abilità dei singoli giocatori hanno sempre un ruolo determinante, ma solitamente è il gioco stesso a predisporre vari upgrade.

Tutto questo è assente in Fortnite: salire di livello non corrisponde ad un aumento di potenza, ottenere oggetti non predispone vantaggi di sorta. Tutto è lasciato alle effettive abilità del gamer, all’esperienza accumulata, all’allenamento quotidiano, allo sviluppo dei riflessi, e a tutte quelle capacità psico-fisiche che non fanno che ribadire come Fortnite sia di fatto un e-sport prima ancora che un semplice videogame. L’organicità, linfa dei MMORPG, ossia il fatto che i singoli assumano senso in virtù dell’esser parte funzionale di un sistema, svanisce completamente in Fortnite. La strategia comunicativa lascia il posto alla tattica solipsistica.

Ci sono sì varie modalità di gioco, ma quella più “sfruttata” è senz’altro la Battle Royale in singolo, genere di online gaming portato al successo proprio dal gioco della Epic Games. Cento partecipanti per volta vengono catapultati su un’isola e iniziano, senza uno scopo, ad ammazzarsi l’un l’altro. Non si tratta mai di stipulare alleanze (e anche nelle varie modalità squad è emblematico il fatto che l’alleanza sia sempre randomica e dal valore esclusivamente quantitativo) o elaborare un piano di battaglia che preveda bluff, sotterfugi o semplice interazione.

La strategia è essenziale finché sussiste un obiettivo, una certa alterità da conquistare, che sia un tesoro, l’aumento di livello, nuove armi, la vittoria della propria squadra, ecc. Nelle Battle Royale come Fortnite, invece, l’alterità da conquistare è semplicemente la propria sopravvivenza. Nient’altro. Ogni altra “alterità” è infatti quella egoisticamente uccidibile. L’unico progresso possibile è quello che non si pone altri obiettivi che il . Tant’è vero che se l’avatar resta sempre uguale a se stesso nelle sue potenzialità, le ripetizioni, l’allenamento in quella palestra psichica che è l’isola di Fornite, permettono al gamer stesso di accrescere le sue capacità tecnico-tattiche: la mira per colpire alla testa, la velocità nel fuggire o costruire scale e muri.

C’è poi un ultimo aspetto emblematico. Non si è mai lo stesso avatar. Dopo ogni partita si risorge con un aspetto del tutto differente. Una perfetta interscambiabilità dei corpi che può essere aggirata solo in un modo: pagando. Un mirabolante riassorbimento della personalizzazione all’interno del paradigma consumistico ed estetico. La riconoscibilità esteriore è un vezzo consumistico che ammanta, da un certo punto di vista, una verità interamente esaurita nella capacità di sopravvivere. Questa rappresenta l’unica “vittoria” possibile nel videogame. Ma la “esperienza: Fortnite” è, in fondo, quella di una vittoria immediatamente azzerata, come nel più classico eterno ritorno dell’eguale di nietzscheana memoria.

Lorenzo Di Maria, molisano, è laureato in Filosofia con una tesi triennale sulla fine della storia e del politico in Alexandre Kojève, e una magistrale sulle trasformazioni della democrazia nell’epoca del digitale. Ha pubblicato articoli per Globus, Players e Lo Sguardo.

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