Si è appena conclusa la tredicesima stagione de Il commissario Montalbano (tratto dai romanzi di Andrea Camilleri), una stagione importante che segna il traguardo storico (per la serialità italiana) dei vent’anni di longevità. La prima stagione esordiva infatti sul finire del secolo scorso, nella primavera del 1999.

In questi due decenni Montalbano si è affermato come il prodotto di punta della televisione narrativa italiana, l’unico – dai tempi de La Piovra del commissario Cattani (Michele Placido) – in grado di varcare con continuità i confini nazionali e riscuotere successo internazionale.

Cos’è accaduto a Montalbano in questi anni? Com’è cambiata questa forma di narrazione? Qual è l’alchimia che ne garantisce ancora il successo?

La Sicilia – Il punto di partenza di ogni riflessione sul fenomeno Montalbano non può che essere la Sicilia e la sua irriducibile capacità di essere serbatoio d’immaginario. È una storia che risale agli inizi stessi della cultura mediterranea, basta chiedere a Omero (o all’intelligenza collettiva alla base di quelle storie) per comprendere come l’isola grande al centro del mare sia l’isola delle storie fantastiche. Da Polifemo in poi. Questa cosa è stata confermata, lasciando scorrere la lunga tradizione mitopoietica come un dato acquisito, anche con l’avvento del racconto per immagini. Basti pensare al cinema italiano tra gli anni ’50 e ’60: da Il bandito Giuliano a Divorzio all’italiana, fino a Il giorno della civetta, solo per citarne alcuni. Ed è poi esplosa a livello internazionale con la saga de Il padrino, che ha reso quella misteriosa tensione tra l’eccesso di istintualità naturale e la stanchezza di una culturalità autologorantesi un patrimonio simbolico mondiale.

Montalbano si inserisce in questa grande prospettiva. E la rinnova in qualche modo. La spiazza con un’ambientazione imprevista e spesso poco considerata, la zona del ragusano. E la sorprende (soprattutto all’inizio) con una vena di realismo magico che si sottraeva dell’obbligo dell’impegno civile antimafioso.

Drama – Trattandosi di una serie che racconta le indagini di un commissario di polizia, risulta immediatamente evidente come il genere televisivo nel quale Montalbano si innesta agli esordi è quello del drama. C’è all’inizio, anche per la forte ascendenza del successo letterario di provenienza, una forte attenzione alla trama. L’omicidio è il frutto di un barocco intrecciarsi di contingenze che obbliga Montalbano a esercitare la sua intelligenza stanca e lenta, perché non è mai focalizzata sui semplici fatti, ma sempre sulle persone dietro ai fatti. Da qui la stanchezza esistenziale che connota, alla fine, ogni forma di comprensione secondo la natura siciliana. Episodi come Il cane di terracotta o La voce del violino sono dei lampi improvvisi che cambiano il panorama televisivo dell’epoca e restituiscono una profondità al racconto per immagini (sul piccolo schermo) inimmaginabile. Sia detto per inciso il 1999 è anche l’anno in cui, dall’altra parte dell’oceano, un italo-americano come David Chase rifigura il mondo della mafia italiano-americana nel capolavoro assoluto che saranno I Soprano.

Dramedy – Con il passare degli anni, tuttavia, questa centralità della trama perde vigore, un po’ per l’affievolirsi della vena letteraria di partenza, un po’ per un imprevisto successo delle dinamiche recitative. Uno dei tratti essenziali che ha segnato l’esplosione di Montalbano è stata la riuscita selezione del cast di attori: Montalbano (Luca Zingaretti), Augello (Cesare Bocci), Fazio (Peppino Mazzotta), Catarella (Angelo Russo) e le stesse Livie (Katharina Boehm e Sonia Bergamasco). Ognuno di essi è entrato talmente bene nella parte ed è riuscito a instaurare un clima di complicità con gli altri al punto da rendere gli elementi narrativi di raccordo nello sviluppo delle indagini elementi di sempre maggiore centralità. È nei duetti tra Montalbano e la divertita inettitudine di Catarella o in quelli tra Montalbano e la dissimulata pedanteria di Fazio, senza ovviamente tralasciare la simpatica cialtroneria da “fimminaro” di Mimì Augello, che si solidifica il successo della serie. Il pubblico è in attesa della giocosa ansia di dimostrarsi capace di fare qualcosa di Catarella. È la commedia umana delle persone semplici che non si lasciano toccare e cambiare dal male incontrato a rendere Montalbano così speciale.

In questa evoluzione avviene dunque un restringimento del lato drammatico a favore di quello comico. E così la serie da drammatica diventa, per usare un neologismo in voga nelle classificazioni televisive, una dramedy, un misto cioè di dramma e commedia. Una narrazione che viaggia sul doppio registro.

Comedy – Nelle ultima stagioni la stanchezza narrativa ha dimostrato segni più evidenti, al punto da dare l’impressione che il delitto sia un pretesto secondario per continuare a entrare nel mondo del Commissariato di Vigata e avere a che fare con i suoi protagonisti. Al di là della debolezza di alcuni espedienti narrativi, ci sono anche alcune spie linguistiche interessanti come l’uso reiterato del termine “ammazzatina” che sembrano proprio volere restituire un clima di leggerezza e distacco. L’indagine è ormai passata in secondo piano. Sono le situazioni tra i protagonisti a essere il fuoco centrale della narrazione. L’intenzione, con ogni probabilità consapevole, è quella di costruire situazioni nelle quali liberare l’alchimia recitativa e umana dei protagonisti. E questo è il frutto inevitabile della consuetudine con i protagonisti. Non si seguono più perché è interessante quello che fanno, bensì perché sia ha interesse nei loro confronti.

L’ulteriore evoluzione verso la comedy, una particolare forma di sit-com, movimentata, narrata, articolata, è in atto. Non si è ancora conclusa. È sicuramente una strada che andrebbe intrapresa per tenere in vita la serie, appoggiandosi su quelli che si sono i suoi punti di forza.

Fatalismo – Questa evoluzione, al netto dell’affievolimento dell’ispirazione, è in qualche modo essa stessa radicata nell’origine di tutta la storia: la Sicilia e il suo metafisico fatalismo. Il male che aleggia in Montalbano non è mai un male virulento, è sempre un male di accadimento, un male figlio del dolore, un male risultato di una contingenza negativa. Il colpevole, ovviamente, c’è; si tratta però di un colpevole meritevole di uno sguardo assolutorio. È il grande caos del mondo a condannare gli esseri umani a un percorso esistenziale fatto di ostacoli. È la luce pura del giorno siciliano ad affaticare le menti, rendendole spesso troppo consapevoli della loro miseria. Serve la giustizia per tenere insieme la comunità, certamente. E Montalbano e i suoi uomini svolgono il loro compito. Serve ancor più l’ironia per tenere insieme la vita insensata degli esseri umani. In Sicilia, ma non solo.

Credit Foto: Pagina Facebook Il Commissario Montalbano Rai

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