Si sono appena concluse le elezioni di Midterm negli Stati Uniti. Senato, Camera dei Rappresentanti e Governatori degli Stati: un’overdose di numeri e di risultati. Le interpretazioni si moltiplicano, ognuno con la propria. Ci sono letture politiche, economiche, sociali. Ogni linea di pensiero si fonda su un presupposto argomentativo più o meno legittimo, buono per lo meno ad entrare nel flusso infinito delle analisi possibili.

Mettendo tra parentesi tutto ciò, c’è un tratto che emerge sempre quando ci si confronta con la cultura statunitense: il particolare uso della categoria di “primo” (first). Il primo presidente afroamericano. La prima donna di religione islamica eletta. La donna più giovane (la scala dell’età connota esse pure una forma di primato). Gli esempi sono molteplici. E non solo politici. Lo stesso avviene in ambito sociale, culturale, economico, scientifico. C’è sempre un primo, un primato, una connotazione che rimodula in maniera nuova l’esistente.

Questa capacità di autofondazione del nuovo si nutre di due componenti essenziali, entrambe abbastanza lontane dalla visione europea del reale: una quantitativa e una qualitativa.

Quantitativa – Quest’aspetto è facilmente comprensibile. Gli Stati Uniti sono affetti da una chiara inclinazione alla quantificazione degli aspetti del vivere. Trovare una misura implica la possibilità di generare un confronto, di creare una gerarchia, di definire un modello. Dal quoziente intellettivo alle statistiche sportive, dalla ricchezza ai premi vinti, costituire un ordine di grandezza permette la collocazione, sia essa sociale, economica, culturale. Una volta che avviene ciò, ci si può relazionare al resto, tanto come obiettivo futuro (puntare a scalare la propria classifica di riferimento), quanto come risultato identitario (ottenere il riconoscimento per quanto fatto). Permette cioè di comunicare chi si è, chi si era e chi si sarà (l’annoso problema della legacy-eredità).

Qualitativa – Non c’è però nella categorizzazione del primato soltanto una componente di risultato, un retaggio positivistico di misurazione. C’è infatti – ed è forse l’aspetto davvero decisivo – una netta componente qualitativa. Il primato, in qualunque regione del vivere si collochi, identifica sempre una conquista, una realizzazione di valori, un ampliamento del reale, un estensione dell’ideale sul concreto. Vive e lavora tacitamente nel first della cultura americana una filosofia della storia, un piano invisibile della razionalità che, di volta in volta, trova applicazione concreta. Ogni primato è una configurazione concreta di una dimensione ideale. Questo processo, in via teorica infinito, è il cuore del vivere statunitense, il fondamento stesso della dimensione valoriale di questa nazione. Da qui si originano gli afflati ideali, per molti aspetti – nella prospettiva secolarizzata europea – ingenui. Qui trova linfa vitale, nonostante le battute d’arresto che offre la realtà, quell’energetica pretesa di poter cambiare il mondo.

Quando si guarda agli Stati Uniti, quando ci prende a modello la cultura americana, bisogna dunque certo confrontarsi con un pragmatismo esasperato. Non bisogna tuttavia mai perdere di vista che tale pragmatismo è possibile solo perché fondato da una precisa missione valoriale, un complessiva missione ideale che fornisce senso alle azioni (pragmatiche) costitutive della Storia (quella con la S maiuscola).

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