È finita Game of Thrones, la serie che ha caratterizzato il secondo decennio degli anni duemila. È finita bene o male? Sembra questo il rovello che attanaglia la mente degli spettatori in una sorta di schiacciamento del mondo narrativo sul mondo reale, nel quale ognuno si sente in diritto di esprimere la propria visione. Ovviamente la legittimità della posizione è intatta. Sull’utilità le perplessità rimangono. Tralasciando il piano generale del “giusto finale” sul quale – anche in ottica ermeneutica – ci sarebbe poco da dire, pena la delegittimazione complessiva del mondo immaginario creato, vale la pena soffermarsi su alcune considerazioni politiche relative proprio alla conclusione della serie. E sulla particolare correlazione temporale che emerge da esse.

Potere – Nelle oltre settanta puntate della serie si sono affrontate tutte le tematiche del sentire umano. C’è un’estetica, c’è un’etica, c’è una teoria dello stato, una teoria dei sentimenti. Un’educazione sentimentale come una riflessione religiosa. Tra tutti i possibili aspetti emerge però come fulcro narrativo primario la questione del potere. La formulazione decisiva di essa viene elaborata da Lord Varys in un dialogo con Tyrion Lannister:

Power resides where men believe it resides. It’s a trick. A shadow in the wall” (“Il potere risiede là dove gli uomini credono risieda. È un trucco. Un’ombra sul muro”)

C’è qui una precisa de-sostanzializzazione del potere. Non si tratta di qualcosa di reale. Qualcosa che esista e possa essere posseduto. È come una magia, qualcosa che si vede nell’inganno della percezione. Esiste dove si presuma esista. Si trova dove si presume si trovi. Questo rende il potere, da un lato, tautologico (“il potere è potere”) e, dall’altro, pura dimensione significativa (“è potere ciò che significa potere, ciò al quale comunitariamente si attribuisce tale significato”).

È dentro questa cornice che va compresa la peculiare e, suona strano a dirlo, profondissima dialettica della puntata finale tra la figura di Daenerys Targaryen e Bran Stark.

Futuro – Al di là della violenza della guerra, che per il fatto stesso di essere guerra deve essere violenta, rimane essenziale in tutta la trasformazione della Mother of Drogon in Mad Queen la dimensione prospettiva della visione. Daenerys guarda al futuro, al domani da costruire. C’è un mondo là fuori che potrà essere diverso. Il suo ruolo è quello di essere l’apertura verso il futuro. Questa proiezione caratterizza in maniera essenziale anche il suo potere che, lungo tutto lo sviluppo delle serie, è stato sempre un qualcosa di là da venire. E, anche nel momento in cui dovrebbe prendere forma, non riesce a concretizzarsi se non in un rilancio ulteriore al futuro e al mondo che verrà.

C’è quindi qui un difetto di significato che caratterizza la stessa dimensione antropologica umana. Il futuro non fonda, apre. Per questo Dany non può essere regina, perché il suo potere non risiede, si proietta. Vola sulle ali del drago e non cammina sulle gambe degli uomini.

Passato – La figura speculare a Daenarys è quella di Bran Stark, il bambino condannato dall’incidente giovanile a essere “broken”, rotto, spezzato, provato. Da lì per lui è iniziato un percorso di interiorizzazione che lo ha portato a essere il padrone della memoria. La dimensione di Bran, paradossale rovesciamento dell’impedimento fisico, è il passato. Ciò che è stato, ciò che è accaduto. Egli stesso dice di “vivere nel passato” (“Mostly, I live in the past”). Questo essere rivolto all’indietro è il fondamento del suo potere. Egli è colui che conosce tutto il passato. È la memoria. È la storia, come sottolinea Tyrion Lannister nel suo discorso finale. Nella storia si può fondare il potere, perché in essa c’è senso, c’è significato. E questo permette il riconoscimento altrui. È come se ci fosse un terreno su cui poter camminare che rassicura gli uomini.

Bran è un re migliore della regina Dany, perché il potere risiede nel passato e chiude al futuro. C’è qui un incrocio completo tra piano temporale-piano antropologico e piano politico che sono le fondamenta stessa dell’essere umano. E rimanda in maniera tacita, e forse inconsapevole rispetto alla serie, a due dialettiche che hanno caratterizzato la storia politica e religiosa dell’Occidente.

La prima è quella tra rivoluzione e restaurazione. La rivoluzione è l’apertura al futuro di un potere che sarà, ma non è mai stato. E, nel momento in cui è, è condannato a essere passato, quindi restaurazione. Rimane solo un frammezzo di luce purissima nell’attesa immediatamente antecedente alla realizzazione che la rovescia nel suo contrario.

La seconda è quella tra fede e speranza. La speranza è l’apertura al domani pieno di certezza che esiste solamente nella base di una fede fondata in ciò che è stato. Non c’è possibilità di aprirsi al futuro se non si è immersi nel passato che permette al futuro di esistere, nel momento stesso in cui lo imbriglia a sé.

Ecco, forse non sarà stato il finale atteso da molti, ma è stato certamente un gran finale – almeno a livello concettuale.

Credit foto: pagina Facebook Game of Thrones

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