Malibù per decenni non è stato solo un luogo, ma un sogno; nell’immaginario collettivo, tanto in America quanto in Italia, Malibù è la città delle ville faraoniche delle star, incantevole località turistica dalle sabbiose spiagge affacciate sull’Oceano Pacifico e circondate dalla natura incontaminata. Luogo d’eccellenza di quell’America intesa come realizzazione simulacrale dell’utopia che Baudrillard teorizzava negli anni Ottanta, e che come tutti i luoghi simulacrali è teso alla sua entropica autodistruzione nel momento in cui la realtà si impone sull’immaginario infrangendo il sogno.

Malibù avvolta dalle fiamme, disintegrata dal più grave ciclo di incendi californiani della storia che ha disseminato morti nel suo infernale percorso, è da un lato il palesamento drammatico delle conseguenze nefaste di una politica sconsiderata e bulimica di sfruttamento ambientale – la versione catastrofica della West Coast del cambiamento climatico che fa pendant ai disastri causati sulla East Coast dai tifoni e dagli uragani; dall’altro lato, al di qua e al di là delle considerazioni pragmatiche, la catastrofe di Malibù assume i connotati simbolici e metafisici di una tensione irrisolvibile che riguarda il tentativo di esclusione del rimosso. La disgrazia si avventa sul paradiso in terra, perché il paradiso in terra è già per definizione un ossimoro: il paradiso – come sapevano i poeti simbolisti della Parigi del XIX secolo – è da subito inferno, luogo delle meraviglie teso al massimo nel tentativo di coprire le energie distruttive di cui la natura (e l’uomo stesso nel suo sfruttamento sconsiderato) sono capaci.

Il rimosso è l’orrore della natura, quell’orrore che è il centro concettuale di un film come Apocalypse Now, le cui scene dei bombardamenti americani al napalm nella giungla sembrano avvicinarsi alle scene dell’inferno degli incendi californiani: che Martin Sheen sia stato eletto sindaco onorario della città diversi anni fa, diventa un ulteriore tassello rivelatore delle oscure dinamiche dell’inconscio collettivo.

Nell’immaginario della popular culture, Malibù è ben lontana dalla New Orleans distrutta dall’uragano Katrina nel 2005, dal momento che essa è sempre stato il rifugio dei grandi divi hollywoodiani. Nella dicotomia di persona e personaggio, vita e spettacolo, le “ville di Malibù” sono state l’ambiente prescelto della prima dimensione, come una sorta di rifugio, e tuttavia proprio perché dialetticamente nell’universo divistico qualsiasi elemento riguardante la dimensione privata partecipa all’esaltazione divistica della star, Malibù è diventato elemento costitutivo del profilo mitico delle star (ulteriore feticcio del trionfo massmediale). Non è un caso la star per eccellenza, ovvero Lady Gaga, dopo la fuga dalla sua villa si sia prestata in prima persona per aiutare degli sfollati attraverso la consegna di viveri: la catastrofe sarà pure l’infrazione del simulacro, ma l’industria dello spettacolo trova sempre le forme adatte al recupero del divismo, anche quando come in questo caso deve far scendere la diva sulla terra. Come per Ariana Grande e l’attentato di Manchester, la catastrofe rompe gli argini del mito, ma lo star system recupera terreno adottando la tragedia come ulteriore vettore di esaltazione dialettica (la diva si fa “persona”, confermandosi diva e rilanciando la sua forza seduttrice, e in questa operazione è ovviamente Instagram lo strumento privilegiato).

L’immagine della villa di Miley Cyrus distrutta dalle fiamme, pubblicata su Instagram dalla stessa cantante, è indicativa di tale dinamica, soprattutto pensando al fatto che solo nel 2017 la cantante aveva dedicato un brano struggente proprio a Malibù: in una dimensione festosa, che nel video si traduce nell’esotismo bucolico delle location, l’erotismo di Cyrus è quello della spensieratezza e dell’infantilismo.

La catastrofe è lontana, e Malibù assurge qui a simbolo di riscatto immaginifico, paradiso capace di contrapporsi e di rispondere all’inferno privato dell’esperienza personale della cantante, sopravvissuta a una vita di eccessi e droghe alla quale rischiava di soccombere qualche anno fa. Eppure già in questo brano, il vocalizzo nella parte finale è qualcosa di più di una mera esaltazione orgiastica e vitalistica: col senno di poi, ovvero dinanzi alle immagini dell’inferno in terra, quel canto seduttore e ammaliante annuncia l’infrazione della felicità conquistata, la rivelazione del perturbante in tanta soavità.

Lo stesso sogno che nel brano del trapper italiano Vegas Jones, prodotto da Boston George, nel 2017 diventa destinazione di un viaggio che mette in rapporto la scena italiana a quella del rap della West Coast: Malibù simbolo di rivalsa sociale, luogo mentale del proprio riscatto, destinazione ideale del viaggio della nuova star, in un’ottica assai provinciale e volutamente trash.

E’ stata Courtney Love, alla fine degli anni Novanta, a mettere in evidenza in maniera sagace l’elemento “terribile” che la gioia e l’esaltazione parossistica dello sfarzo divistico portano sempre nel proprio nucleo profondo: nella ballata, una sorta di requiem tanto dell’esperienza musicale delle Hole, quanto della carriera musicale di Courtney Love e in maniera più generale di un’intera stagione musicale legata al grunge e al post-Cobain, Malibù conserva il suo incanto, ma le fiamme e la catastrofe si presentano sia nel videoclip (i falò e il modellino distrutto) sia nel testo.

(traduzione di un estratto del brano Malibù, Hole 1998):

Frantuma e brucia
Tutte le stelle esplodono stanotte
Come sei diventato così disperato?
Come fai a sopravvivere?

Aiutami per favore
Brucia il dolore dai tuoi occhi
Oh, dai sii vivo di nuovo
Non morire

Come hai fatto a bruciarti così quando
Eri a malapena in fiamme
Piangi con gli angeli
Io ti salverò

Il senso drammatico delle parole cantate da Courtney entra in conflitto con la melodia apparentemente spensierata, un senso complessivamente decadente e catastrofico che già faceva di Malibù luogo morboso, quasi in attesa che la distruzione si abbattesse esplicitamente e senza mediazioni su di lei.

Credit Foto: Instagram

Alessandro Alfieri è saggista e critico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa di estetica dell’audiovisivo e cultura di massa. Tra le sue pubblicazioni Il cinismo dei media, Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino e Lady Gaga. La seduzione del mostro.

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