L’esercizio del dominio risiede negli ambiti simbolici. Il velo da sposa di Meghan Markle, femminista e afroamericana, è il tragicomico sentimento del contrario rispetto al simbolismo antico che perpetua i privilegi e la supremazia del Regno Unito sulle sue ex colonie. Salutate con l’espediente di un pacifico fiore durante il Royal Wedding, eppure sempre suddite: una strategia efficace per salire on stage e mettere in risalto il fondale, senza inabissare la performance.

La scelta di Meghan Markle di affidare alla creative director Clare Waight Keller il design minimal del suo abito da sposa dalle linee essenziali si è accompagnata ad un gesto politico. Un velo dal prezioso ma sobrio ricamo in cui si intrecciano 53 fiori, uno per ogni Paese un tempo sottoposto alla supremazia coloniale della Corona d’Inghilterra, si inchina a quella tradizione imperialista britannica mai estinta, anzi, cristallizzata in una certa propensione al benessere, purchè sempre universale e condiviso, del Commonwealth.

A esaltare la silhouette della Duchessa del Sussex sono stati semplicità e candore filtrati attraverso un velo in tulle di seta, che, con i suoi cinque metri di lunghezza, precedeva il regale incedere delle décolleté firmate Givenchy, trascinandosi un universo carico di allegorie appesantite dalla storia. L’abito si fa dunque espressione dell’Impero e si affretta a prendere in trappola la Meghan americana che, nell'attesa di acquisire la cittadinanza britannica, viene inghiottita nei cerimoniali, protocolli e divieti che l’essere membri della Royal Family comporta.

Un sentore stridente soffoca l'armonia del teatro di posa e si abbandona al grottesco. La pregiata bellezza di un vestito da sposa, non uno qualunque, ma quello tanto atteso, inedito, indossato dalla moglie del Principe Harry d’Inghilterra, sostiene il rigore di una tradizione che dissimula la fine dell’esperienza coloniale, camuffandola sotto la coltre del paternalismo occidentale. Ecco allora un fiore, un simbolo d’ossequio, di pace. Una formalità necessaria per cesellare l’incanto del matrimonio da favola dell’ultima Cenerentola. Un orpello che sublima i fasti dell’egemonia del British Empire in quella logica meno violenta che il Commonwealth rappresenta, almeno da un punto di vista evocativo, nell'immaginario europeo.

L’occasione di offrire un omaggio ai 53 Paesi della libera associazione delle ex colonie britanniche esprime il tentativo, del resto ben riuscito, di accogliere la storia del Regno Unito persino negli aspetti più foschi di quel passato in cui anche la nascita degli Stati Uniti d’America assume un ruolo di presa di posizione radicale. Eppure, questo gesto che prelude al futuro ruolo di Meghan nelle vesti di Commonwealth Youth Ambassador, spinge a scrutare la paradossale disinvoltura di una cittadina afroamericana che si fa testimonial del conquistatore, con la stessa leggerezza di un velo da sposa sfiorato dal vento.

Federica Serafinelli studia Filosofia alla Sapienza. È appassionata di arte, piante esotiche, lunghe passeggiate in luoghi esplorare e nei quali perdersi

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