Ci sono due obiezioni a San Valentino.
E suonano più o meno così:

  • 1. Dobbiamo proprio fare quello che ci dicono gli americani.

Peccato che la festa è tutta italiana (e romana). Secondo History.com si celebrava in onore di Fauno e il nome era Lupercalia: un rito pagano per la fertilità. In sostanza si trattava di una sorta di capodanno anticipato, visto che il nuovo anno iniziava per i romani il 1° marzo. Lo scopo: tenere lontani i lupi dai campi coltivati. Durante la festa i sacerdoti compivano sacrifici propiziatori nella grotta in cui si credeva fossero stati allattati Romolo e Remo, mentre in città venivano sorteggiati i nomi dei ragazzi che avrebbero vissuto insieme nel corso dell’anno successivo.
Certo, la storia continua e nel 1600 in Europa si prende a inviarsi le valentine. Gli americani arrivano soltanto due secoli più tardi, facendo quello che sanno fare meglio gli americani: creare il primo grande evento di massa dedicato a San Valentino.

  • 2. Non si può comandare un sentimento.

Qui viene l’interessante. Perché questa seconda obiezione, che di norma è anche declinata in per me e il mio ragazzo/ragazza è tutti i giorni San Valentino, che ha come corollario è solo un altro modo capitalista per farci spendere dei soldi è in realtà radicata su una differenziazione prinzipiell, di principio: non è possibile cristallizzare il più insondabile dei sentimenti. Quel che va bene in buon sostanza per Halloween (la formalizzazione delle pulsioni ludiche) per Natale (la formalizzazione dei sentimenti familiari) e per l’Happy Hour (la formalizzazione per l’ora di leggerezza post ufficio) non va bene per San Valentino.
Ora la cosa potrebbe essere disinnescata sotto due punti di vista distinti:

DISINNESCO 1: la nostra vita nella civitas è fatta di codici. Tutto è regolato da una serie precisa di rituali. Più prosaicamente, appuntamenti. Perché non ci si può dimenticare la telefonata per gli auguri di compleanno alla zia (numero di telefonate alla zia: una volta l’anno); invitati a un matrimonio non si può non mettere almeno la stessa cifra che gli sposi hanno speso per invitarti al ristorante  (il cortocircuito è evidente); quando entriamo per la prima volta in una casa non lo si può fare a mani vuote e quando ci si saluta ci si dà una stretta di mano (due baci sulla guancia più confidenza, uno sulla guancia maggiore confidenza). Appunto, codici. Un codice non è esso stesso il contenuto simbolico di cui si fa codice. Perché il codice è un rimando, un gancio. Tutti questi codici, compresi festa del papà/della mamma/ della donna/ della memoria vengono accettati proprio in quanto “rimandatori di segnale”. La fonte del segnale, è bene chiarirlo ulteriormente, sta da un’altra parte.

DISINNESCO 2: Scrive Javier Marías (il suo ultimo romanzo, Berta Isla, è stato recentemente insignito del premio come miglior libro dell’anno 2018 secondo La Lettura) che «stare insieme consiste in buona parte nel pensare a voce alta, nel pensare tutto due volte invece che una, una con il pensiero e l’altra con il racconto».
Due volte invece che una. Quello che Marías descrive è quel che potremo chiamare una ragione narrativa: occorre richiamare razionalmente il sentimento, per renderlo tale. Un pensiero che risale indietro nei secoli, passa per la filosofia medievale (si è creduto a un certo punto che la garanzia del mondo fosse che qualcuno pensasse il mondo) e arriva alla notte dei tempi: per scoprire che tutto è racconto, altrimenti non è.


Credit Foto: Pixabay

Matteo Sarlo è nato a Roma nel 1989, dove vive e lavora come Editor.
Nel 2018 ha pubblicato Pro und Contra. Anders e Kafka.
Ha scritto per diverse riviste filosofiche, di critica cinematografica, viaggi, cronaca e narrativa urbana.
È fondatore di Globusmag.it

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