La Roma è ufficialmente in crisi. La sconfitta con il Bologna certifica qualcosa di cui tutti ormai avevano sentore. La squadra allenata da Eusebio Di Francesco ha perso il bandolo della matassa, priva di lucidità (rispetto alle azioni da compiere) e di forza (nel realizzarle). Come sempre avviene nel mondo dello sport, davanti a questa situazione di distanza tra l’atteso e il reale si accende l’eziologia, la ricerca più o meno remota, più o meno aderente, delle cause che hanno portato a questa situazione. Lavorare su questa ricerca delle causa è compito di chi si occupa professionalmente di questo mondo, così come del semplice tifoso che vive nell’amore dei propri colori, in questo caso il giallo e il rosso.

Questa parte spetta ai calciofili, ai Romanofili e ai Romanologi. Quello che si vuole provare a focalizzare qui è un equivoco più generale che trova nella situazione della Roma un caso di scuola: il rapporto tra gioventù e talento.

La gioventù

Una delle linee operative principali che ha riguardato negli ultimi anni l’operato della Roma sul mercato dei giocatori, e più in generale nella costruzione della squadra,  è stata quella di dare spazio ai giovani, di ringiovanire la rosa. Questa scelta, escludendo il campo dalle eventuali motivazioni economiche (che qui non interessano), si fonda su un preciso assunto culturale: il primato della gioventù. Chi è giovane è più adeguato al mondo che si affronta, è più vitale e più capace di adattarsi ai cambiamenti.

Fin qui, si direbbe, è tutto giusto. Il mondo si sviluppa grazie alle nuove generazione. Lo sport evolve con l’arrivo dei nuovi giocatori che creano nuove mitologie viventi.

Il talento

Nel caso della Roma c’è però un passaggio in più. C’è l’idea, forse non tanto consapevole e non tanto esplicita, che la gioventù sia di per sé una forma di talento. In altre parole, un giocatore giovane è un giocatore di talento. Gli esempi che si possono fare sarebbero molti, ma basta limitarsi a questa campagna acquisti (Zaniolo, Blanda, Coric, Kluivert, Cristante) o alla precedente (Pellegrini, Under) per cogliere il senso della questione.

Ora in questa sovrapposizione avviene il corto-circuito: la gioventù è la dimensione della potenzialità. Questo è certo. Un giovane è nelle condizioni di sviluppare, grazie alla proiezione del tempo, ciò che non ha ancora, ciò che non è ancora. Appunto, si tratta di una potenzialità. La gioventù non è un talento in sé, è la possibilità che il talento si manifesti.

La gioventù come talento

La Roma, società e squadra, pensa invece proprio questo, che la gioventù sia un talento in sé. Basta essere giovani per essere bravi. Una prodezza, un gol, un passaggio, uno scatto è immediatamente si apre il paradiso delle similitudini: il nuovo Messi, il nuovo Beckham, il nuovo Ancelotti, il nuovo Pizarro, il nuovo Aldair, il nuovo nuovo.

E invece il talento è qualcosa di esistente, certo, ma di altrettanto fragile ed effimero. Certamente è legato alla gioventù: chi ha talento lo possiede, da giovane come da adulto. Non è tuttavia lì che si limita e, ancor meno, che si mostra.

Per palesarsi, il talento ha bisogno di disposizione, di applicazione, di dedizione. La gioventù è lo spazio esistenziale dove ciò avviene meglio, perché si è più pronti a imparare e a migliorare. Ma bisogna farlo, bisogna passare dalla dimensione della possibilità a quella della realizzazione. C’è quel di più che, qualora non si mostrasse, porterebbe a rendere un giovane che è, anno dopo anno, sempre meno giovane a divenire una promessa mancata. A palesare tutta l’ambiguità su cui si fonda l’agire della Roma, l’equazione secondo la quale la gioventù sia di per sé un talento.

Perché se è vero che c’è stato un Francesco Totti, è altrettanto vero che di Totti prima di Totti e di Totti dopo Totti ce ne sono stati molti molti di più. E di questi difficilmente si ricorda il nome.

Credit Foto: Pagina Facebook AS Roma

Salvatore Patriarca

Giornalista, filosofo, imprenditore. Il suo ultimo libro è Il digitale quotidiano (Castelvecchi).

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