The Haunting of Hill House è una delle migliori novità dell’anno. La prima stagione della serie creata da Mike Flanagan a partire dal romanzo omonimo della scrittrice statunitense Shirley Jackson, si è rivelata un successo per Netflix. E ha confermato un complessivo movimento di riscoperta del genere gotico-horror-paranormale che è in atto negli ultimi anni.

Le linee interpretative di questa serie sono molteplici: dal genere, appunto, alla provenienza letteraria; dall’attrazione del paranormale alla famiglia come nucleo narrativo. Al centro delle riflessioni presenti, tuttavia, ci sono due elementi in qualche modo estrinseci, formali, che definiscono più il come della serie che non il cosa. I due piani sono fortemente intrecciati tra loro e connotano il fatto stesso del vivere: il tempo e il trauma.

Tempo – Da un certo punto di vista che la temporalità sia un tratto essenziale del vivere sfiora l’ovvio. Così come lo sia di ogni forma del raccontare. In questa serie, sulla scia di un’autentica rivoluzione visiva inaugurata da Christopher Nolan nel suo Memento e poi sviluppata da lui e da molti altri, l’articolazione dei piani temporali diventa il fatto stesso della narrazione. Il tempo di Hill House è un tempo scomposto, frazionato, rincorso, sfaccettato, che non conosce semplicemente il muoversi verso il futuro o l’opposta univoca regressione verso il passato nostalgico. Si tratta di un tempo costruito nel vissuto, che ricorda e dimentica, che rigenera e metabolizza. In questa varietà dei piano si genera la realtà stessa.

L’intero sviluppo della serie si basa su questa variazione di vissuto. Accompagna i protagonisti nell’evoluzione della propria vita. Evidenzia gli aspetti salienti. Proietta delle possibilità (irrealizzabili?). Annulla dei fatti accaduti. Mano a mano che avanzano le puntate, i tanti piccoli pezzi disseminati tendono a completarsi. Tale completamento tuttavia non è un atto esplicativo, perché il tempo non si univoca mai, perché i vissuti rimangono tanti, perché ogni singolo particolare (ricordato o dimenticato) porta con sé una rifigurazione del reale. Non si conosce fino in fondo, neanche alla fine, il segreto di Hill House. Il tempo della casa, il tempo della vita nella casa rimangono entità non misurabili o riducibili a ragione. Si conosce ciò che è in qualche modo stato. Questo sì. Questo stato del passato non rimane comunque del tutto permanente, si proietta esso stesso verso il futuro. Trasforma ancora, nonostante sia passato, le vite di chi è rimasto.

In poche parole, è un tempo con-fuso quello di Hill House, un tempo che rispecchia molto bene le ansie della contemporaneità, dove i piani della visibilità si mischiano e schiacciano le forme stesse della temporalità (passato, presente, futuro) in una sorta di presente multidimensionale.

Trauma – Si è detto come il completamento non sia esplicativo. Esso, infatti, è puramente catartico. E qui si innesta il secondo piano della serie, quello psicologico. Il tratto essenziale del racconto è una volontaria esternalizzazione della dimensione psichica. Lo spazio fisico della casa è il luogo delle paure. Lì, convivono le difficoltà dell’affrontare la vita di adulti e bambini. La psiche è oggettivata nelle stanze, negli oggetti. La non-controllabilità degli eventi si concretizza nella resilienza oscura della casa. Andando ancor più a fondo, questo nesso porta all’identificazione traumatica: la casa è il trauma della famiglia Crane. È il colpo improvviso che spezza l’innocenza del vivere e li mette davanti alle difficoltà dell’esistere. Il racconto è tutto qui. Il trauma dell’essere che accade in un momento, apparentemente preciso e connotabile, sebbene esso non si situi nel tempo, bensì nella psiche di ciascuno dei protagonisti. Da questo colpo si dipanano le vicende personali, le risposte differenti che vengono seguite nel corso delle puntate.

In quest’ottica è una serie importante, The Haunting of Hill House, perché riesce a mettere in scena una complessità psichica che non si riduce all’evento traumatico, che non condensa tutto in un singolo fatto. A una facile lettura, infatti, la tentazione di ricondurre tutto a una complessa elaborazione di un lutto, di una scena madre da cui si dipana il senso negato delle vite familiari dei Crane, è forte. Lo sviluppo della serie resiste bene a questa semplificazione e lascia emergere questo colpo originario, questo confronto psichico con l’esterno che obbliga a crescere, a prendere consapevolezza della propria limitazione. È questo forse il concetto chiave della serie: il limite, la consapevolezza di esso, l’accettazione di esso.

Lungo questo crinale si decidono i destini dei vari protagonisti della serie. Ci sono coloro che ritengono di poter superare questo limite, di essere in grado di aggiustare tutto o di rimanere al di qua di quel trauma del tempo che è il vivere. E ci sono gli altri che, in percorso costellato di dolori ed errori, accettano di essere mancanti, privi della completezza, pure desiderata.

Alla conclusione della narrazione, il tempo del trauma si scopre allora essere il trauma del tempo, la perdita improvvisa della possibilità di vivere nella fluidità dell’essere. E la casa rimane lì, come simulacro, come monumento, come memento di una scelta reclusiva che, in apparenza, si mostra come salvaguardia eterna di sé, sebbene in realtà sia l’estremo gesto di rinuncia all’imprevedibilità del vivere.

 

Credit Foto: pagina Facebook The Haunting of Hill House

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